Le prime ombre della sera si allungavano serpeggianti tra i corpi inerti sparsi sul campo di battaglia.
All’interno della grande tenda, il piccolo Samas osservava estasiato il padre mentre si toglieva faticosamente l’armatura.
Namtar, il grande guerriero assiro, era coperto di lividi e ferite e grondava copiosamente sangue.
Prevalentemente, va detto, non suo.
“È un pezzo d’orecchio, quello?” disse Samas.
Namtar si voltò verso il figlio, e seguì con lo sguardo la direzione indicata dal dito del bambino.
C’era un pezzettino di carne sanguinolenta subito sopra la scapola destra. Namtar lo afferrò con una smorfia, e lo scaraventò lontano.
“Uno schifoso lobo babilonese,” grugnì “Quei cani riescono a dar fastidio anche da morti. Vieni, figliolo,” disse poi “dammi un mano con questo scudo.”
Il piccolo Samas scattò in piedi, e corse felice ad aiutare il padre.
Samas scoppiava d’orgoglio quando riusciva a essergli utile. Namtar era un generale famoso, un grande stratega e un valoroso combattente.
Il suo nome significava in assiro “Messaggero della Morte”, ed era infatti morte quello che dispensava senza economie sul campo di battaglia.
Samas invece si chiamava così in onore del Dio del Sole e della Giustizia.
Namtar non sognava un futuro da guerriero, per lui. Samas era troppo curioso, e troppo intelligente.
Le sue domande erano come frecce avvelenate, e spesso riuscivano a mettere in difficoltà persino i più saggi tra i suoi maestri e precettori.
E anche quella sera, infatti, Samas non si smentì.
Tutto d’un tratto, infatti, fissò il padre negli occhi e buttò lì, in modo quasi casuale:
“Ci saranno altre guerre, padre?”
“Non c’è dubbio,” rispose Namtar “Oggi li abbiamo colpiti duramente, ma l’impero babilonese è potente e non tarderà a riorganizzarsi e a rispondere.”
“Non intendevo questo. Intendevo altre guerre.”
“Altre guerre? Contro altri imperi?”
“Sì, anche,” rispose Samras,” Ma dicevo altre nel senso di diverse. Tipo…” pausa “Non so. Nel futuro. Ecco, padre: come saranno le guerre nel futuro?”
Namtar si strinse nelle spalle: “Come credi che saranno, figliolo? Come oggi. Prenderemo i babilonesi, i medi, gli ittiti, i persiani, chiunque venga a minacciare il nostro glorioso Impero, e gli faremo un suburru così.”
“No, padre, io intendevo nel futuro-futuro. Tipo tra duemila, tremila anni.”
Namtar si girò verso il figlio, aggrottando la fronte: “Come saranno le guerre fra tremila anni? Vuoi sapere come si combatterà tra tremila anni? È questo che mi stai chiedendo?”
“Mh-mh” annuì il bambino.
“Beh, che sia dannato se lo so,” disse il guerriero.
Ma colse immediatamente l’espressione delusa che si andava dipingendo sul volto del figlio.
Per cui si sedette di fronte a lui, gli sorrise, e ricominciò: “Beh, tanto per cominciare, immagino che si useranno armi migliori,” disse. “Lance che non si spezzano, spade che non perdono il filo, frecce che incendiano meglio. Anzi,” riflettè “fosse per me, mi piacerebbe avere delle frecce che si lanciano da sole, senza tutto quel giro di faretra, arco, incoccare, tendere, eccetera. Dopo ogni battaglia ho la spalla mezza slogata e la mano scorticata,” disse, massaggiandosi sovrappensiero le articolazioni doloranti.
“Frecce che si lanciano da sole,” disse rapito il bambino “Praticamente armi automatiche.”
“Proprio così, figliolo, armi automatiche. Balestre con cento, duecento colpi, così da non restare mai a secco. E magari frecce che esplodono come fuoco greco, uccidendo non soltanto uno ma tre, quattro… facciamo dieci nemici nello stesso istante.”
“Accipicchia!” disse il bambino.
“E già che ci siamo,” riprese Namtar “mi piacerebbero dei cavalli che non si stancano, che non si fermano per bere o defecare, che non imbizzarriscono, che sopportano qualche freccia nella pancia, e che corrono dieci volte più veloci dei migliori stalloni d’Arabia. Cavalli con armatura, enormi, in grado di trasportare magari sei o sette guerrieri, così che uno solo si occupi di condurre, lasciando gli altri liberi di usare le loro balestre automatiche.”
“Incredibile,” disse il Samas.
“Incredibile,” concesse Namtar “ma non impossibile. Questi che oggi sono solo sogni, nel futuro potrebbero diventare realtà.”
Il piccolo Samas si fece pensieroso. Poi di colpo saltò in piedi tutto eccitato e disse: “Ma padre, se nel futuro i sogni possono diventare realtà, allora perché non sognare ancora di più?”
“Sognare di più? Cosa intendi, figliolo?”
“Beh, se fra tremila anni si potranno lanciare frecce automatiche, allora si potrebbe costruire anche una freccia enorme, grande come… come un albero. Una freccia che esplode come quando il granaio del nonno prese fuoco. Un freccione che potrebbe far fuori un’intera tribù in un colpo solo.
“Per la barba di Assur,” esclamò Namtar, sorridendo. Non oso immaginare che genere di faretra servirebbe.”
“Beh, non la dovrebbero portare sulle spalle i guerrieri,” rispose Samas. “Si potrebbe lanciare con una balestra magica da distanze inimmaginabili, così lontano che il nemico non riuscirebbe nemmeno a vedere da dove arriva.”
“Addirittura. Come un dio che scaglia fulmini dall’alto dei cieli?”
“Proprio così, padre. E poi ci saranno anche uccelli meccanici, per vedere attraverso i loro occhi cosa fanno i nemici, e dove si nascondono. E statue incantate, dalle cui orecchie spiare le conversazioni segrete nelle loro tende.”
“Alla faccia,” disse Namtar “Con armi così, sarebbe un gioco da ragazzi.”
“Lo sarebbe, padre. Potresti colpire chiunque, ovunque, con precisione chirurgica.”
“Precisione chirurgica? E che significa, figliolo?”
“Non saprei, ma rende l’idea.”
“Beh,” riflettè il guerriero “non mi dispiacerebbe essere il generale di un tale esercito.”
“Sarebbe fantastico, padre. Magari avresti una mappa magica, che ti mostrerebbe con precisione la posizione dei tuoi nemici. Seguendoli quando si muovono!
“E perché non un guanto magico,” disse il padre “con il quale indicare le figure sulla mappa, e dirigere in quel punto i fulmini del cielo?”
“Oh, padre” disse Samas “Con oggetti del genere, potremmo sconfiggere qualsiasi nemico senza nemmeno uscire dalla tenda.”
Namtar scrollò il capo, fece un profondo respiro, si alzò in piedi e si diresse a grandi passi verso l’entrata della tenda. Fissò a lungo i resti della battaglia, poi si girò verso il figlio e disse:
“Non lo so ragazzo, non lo so. Forse la fantasia è saggezza, forse è follia.
Forse le cose andranno come sogni tu, e le guerre del futuro saranno davvero altamente tecnologiche, con macchinari avveniristici capaci di colpire da distanze lontanissime, armi di una potenza devastante, messaggeri invisibili, e nessun reale contatto fisico.
Oppure stiamo galoppando troppo con l’immaginazione. Anche fra tremila anni, le guerre si continueranno a combattere in modo tradizionale. Armi migliori, cavalli migliori, ma alla fin fine tutto si risolverà in due eserciti che si affrontano in campo aperto, armi alla mano e farfalle nello stomaco. Con urla per incitare i propri uomini, e pugni al vento per spaventare il nemico.
Ci sarà scontro fisico, e si vedrà il terrore del nemico dipinto nel bianco dei suoi occhi.
Come è oggi, come è stato ieri, come sempre fu, fin dai tempi dei tuoi avi.
Samas riflettè in silenzio. Poi si volse verso il padre: “Sono due ipotesi affascinanti, padre. Ma qual’è quella giusta?”
“Che sia dannato se lo so,” rispose Namtar “Non sono mica un indovino.
Quello che posso dirti, figliolo, è che andrà in un modo, oppure nell’altro.
Non certo in tutti e due, insieme.
Se gli uomini impareranno a costruire macchine che permettono di combattere stando lontani dal campo, risparmiandosi le marce, la fame, la fatica e le ferite, perdio, le useranno.
Se invece non ne saranno capaci, continueranno come noi, a farsi il suburru in trincea.
Ma se qualcuno cercherà di raccontarti
che negli stessi anni, e negli stessi luoghi,
sono state combattute entrambe queste guerre,
la guerra supertecnologica prima e le sfilate di militanti sotto il sole poi,
allora, figliolo,
saprai con ineluttabile,
monumentale,
granitica certezza
(per una ragione che, davvero, non riesco a immaginare)
che quel qualcuno
ti sta sonoramente
prendendo per il suburru.”
Per le immagini si ringrazia: Wikipedia per i bassorilievi assiri, le solite agenzie internazionali (Reuters, Associated Press, Al Jazeera) per le foto dell’ISIS, e Wikileaks per le immagini satellitari delle strade di Baghdad. A proposito delle quali, se siete interessati, sappiate che sono tratte da un video top secret delle Forze Armate americane pubblicato da Wikileaks il 5 aprile 2010. Il video si chiama “Collateral Murders” (“Omicidi collaterali”), e mostra l’esecuzione “da remoto” di una dozzina abbondante di persone, tra cui due inviati stampa della Reuters. Lo trovate qui. I fotogrammi sottotitolati in italiano sono tratti dal documentario “Il nuovo secolo americano”, del 2007. L’omino perplesso nella penultima immagine è, naturalmente, di papà Elio.
in effetti, per radere al suolo basta la tecnologia, se invece si vuole prendere possesso del territorio, occorre mettere in preventivo il “corpo a corpo”
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Questa è una considerazione assolutamente sensata (il che è confermato dal fatto che non è venuta in mente a me).
Eppure, anche le guerre tecnologiche hanno come obbiettivo la presa del territorio (economica, politica o culturale: se ne può discutere). E’ che, quando ci sono in ballo interessi pressanti, evidentemente piace adottare la dottrina della “tabula rasa”: prima rado al suolo, poi ricostruisco. E’ tanto più semplice!
Ho cercato di approfondire questi concetti anche in altre farneticazioni – le prime che mi vengono in mente sono There’s prosciutto on your eyes, babe e Cari extraterrestri (ovvero: Come costruire un impero in 7 semplici mosse). Essendo farneticazioni, non sono affatto certo di aver trasmesso niente. Ma stimolato la conversazione, sì.
E questo mi piace un sacco.
Benvenut@ su Afterfindus, Tads. Porta la tua felinità da queste parti quando vuoi. 🙂
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hai ragione, una volta gli invasori cercavano di distruggere il meno possibile, adesso fanno Cartagine e poi giù soldi per ricostruire, magari con qualche Mc Donald sparso qua e là.
Grazie per il benvenutO 😉 che sarà ricambiato nel caso decidessi di venire a curiosare nel mio blog
l’avatar non è un felino, è un lupo, in origine una gif che apriva e chiudeva gli occhi, me lo porto dietro da quasi 20anni, mi ci sono affezionato
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Veni, vidi, me la godei. Ritornerò.
Solo, in quanto vittima incolpevole del digital divide, le mie peregrinazioni hanno la stessa eccentrica imprevedibilità del battere di ciglia del tuo lupo.
Non aspettarmi per cena. 😉
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