C’è una storia che ho appena scongelato e, ragazzi, merita davvero di essere raccontata.
E’ la storia di un’isola. Un’isola isolata (mi si perdoni il calembour), talmente isolata da rappresentare, di fatto, una specie di piccolo microcosmo a sé stante. Ma partiamo dall’inizio.
Quando Dio creò il mondo, come è noto, dimenticò il rubinetto aperto e allagò tutto. Visto che un pianeta tutto di oceano non avrebbe fatto una gran figura al Salone Celeste delle Divinità, Egli prese un sacco pieno di argilla, ne fece un blocco largo e piatto e lo scaraventò giù, nel mare. Ovviamente un lavoro fatto così in fretta (pare addirittura in meno di una settimana) non poteva durare, e difatti la Pangea (nome dell’originario pezzettone di argilla) nel corso dei secoli si frantumò, dando origine ai continenti come oggi li conosciamo.
Prima di buttare via il sacco, però, Dio lo scrollò per bene, e le briciole avanzate andarono a formare alcuni microscopici arcipelaghi sparpagliati in mezzo all’oceano: le isole Hawaii, le Marchesi, le Samoa, le Kiribati, le Caroline, le Marshall, le Marianne, la Polinesia, la Melanesia, le Bismarck, le Figi, le Salomone… in pratica tutto quel pulviscolo di isolette e atolli noto come Oceania.
La briciola più remota, la più lontana da tutte le altre, venne chiamata Isola di Pasqua. Il nome non le venne dato da Dio in onore della nota festività legata al culto di suo figlio – ovviamente no: sarebbe stato un imbarazzante anacronismo. Il nome deriva dal giorno in cui uno scocomerato esploratore olandese, tale Jacob Roggeveen, partito per trovare un buon posto per fare snorkeling, arenò lì il proprio veliero. Correva l’anno 1722.
[Per inciso, tutto sommato fu un bene che lo sbarco sia avvenuto il giorno di Pasqua e non, per dire, il giorno di San Prosdocimo, o in quello di Santa Emerenziana, o nella domenica di Quinquagesima: la toponomastica del luogo ne avrebbe sofferto parecchio. “Isola di Pasqua” suona bene. E suona bene anche il nome che le diedero i suoi stessi abitanti: Rapa Nui. Nome, questo, che se traduco correttamente (“Noi, teste di rapa”) è anche tristemente profetico]
Tornando al 1722, quella che si parò di fronte agli occhi dell’olandese vagante e della sua ciurma era un’isolaccia arida e spelacchiata, senza alberi e senza animali – con l’eccezione di qualche gallina tisica, e di moltissimi insetti. Esplorando l’isola, gli olandesi trovarono numerose tracce di una civiltà evoluta, che però era evidentemente scomparsa da un bel po’ di tempo. L’isola era infatti disseminata di costruzioni in pietra, strade e altre strutture – tutto però diroccato e inesorabilmente in rovina. “Accipicchia,” disse Jacob (anche se probabilmente lo disse in olandese) “Che fine avrà mai fatto il nobile popolo che ha realizzato tutto questo?”
Chiunque fossero stati i misteriosi costruttori, di certo non avevano niente a che fare con gli indigeni, un pugno di selvaggi decisamente male in arnese, malaticci e con una fastidiosa tendenza a mangiarsi – in assenza di altre alternative – l’uno con l’altro.
Ma la cosa che riempì più di stupore gli esploratori furono le statue. Tante statue. Veramente tante. 887, per la precisione, otto-otto-sette. Che sono magari poche magari rispetto a quelle che ornano i giardini di Versailles, ma sono un numero niente male per un posto del genere. E non parliamo di statuette da presepe o di nanetti da giardino: le statue dell’isola di Pasqua sono susanelli alti da 4 a 6 metri, con uno statuone record da 21 metri (più di un palazzo di cinque piani!), pesanti dalle 10 alle 270 tonnellate.
Molte statue erano in piedi, ma tante era state abbattute, o forse erano cadute per i fatti loro. Alcune erano complete, altre soltanto abbozzate, a volte ancora mezzo incastonate nella pietra da cui qualcuno le stava scolpendo. Rano Raraku, la cava di pietra da cui provenivano tutte le statue, sembrava una fabbrica abbandonata, con in giro ancora martelli e scalpelli e (dico per dire) mozziconi di sigarette fumanti e bicchierini di caffè ancora tiepidi.
Oltre alle statue, l’isola era disseminata di enormi piattaforme di pietra (300, per la precisione) che dovevano fungere da basamento per le statue. Non che le piattaforme fossero opere architettoniche particolarmente suggestive, ma giova notare che ognuna pesava come circa 20 statue.
Come già detto, tutto in rovina, desolato e abbandonato.
Non si sa con esattezza come l’olandese vagante abbia reagito a quel triste spettacolo, ma se è stato furbo avrà levato le ancore e avrà fatto rotta verso Bora Bora, appena un paio di settimane di navigazione più in là.
In quella stessa isola, però, circa 800 anni prima, era arrivato un altro gruppo di imbarcazioni. Una piccola flotta di canoe provenienti, chissà come, dalla Polinesia occidentale o dalla Nuova Guinea. Il panorama che accolse questi primi coloni fu del tutto diverso: un’isola rigogliosa, piena di vegetazione e di animali. E niente statue.
L’isola era ricoperta da una varietà impressionante di alberi, tra cui la specie di palma più alta del mondo, e ospitava una miriade di uccelli: era la zona di riproduzione più ricca della Polinesia e probabilmente dell’intero Oceano Pacifico. Non solo palme e pennuti, comunque: l’isola era piena di animali, fiori, e frutti. Un paradiso fatto e finito.
Cosa successe tra i due sbarchi? Quale orrenda catastrofe riuscì a trasformare l’Eden in un deserto spelacchiato?
Se non siete Jared Diamond, Kevin Costner o Piero Angela, mi permetto di suggerirvi la parte 2 di questi appunti, “Pirlaggine Pacifica”.
Non ve ne pentirete.
Ispirato da Jared Diamond, “Collasso”, 2004.
complimenti per la sintesi leggera e fluida, (ho letto Collasso ed è un gran lavoro)
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Grazie Gigi! Considero tutto il lavoro di Jared Diamond una inesauribile fonte di ispirazione. Prossimamente pubblicherò qualche altro pensierino, tratto non solo da “Collasso” ma anche da “Armi, acciaio e malattie”, che se non hai letto ti consiglio senz’altro.
Spero che ripasserai a trovarmi! E grazie ancora per il commento!
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…beh, che dire… ci ho messo un secolo, ma in qualche modo ho tenuto fede a quel “prossimamente”. Tre articoli per raccontare velocissimamente “Armi, acciaio e malattie”. Spero tu sia ancora in ascolto, Gigi. Nel caso, puoi cominciare da qui. Ciao!
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