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Il popolo giunto con le canoe prese possesso dell’isola. E lo fece con la logica squisita che da sempre contraddistingue la specie umana: dividendosi in fazioni.
Anziché godersi l’isola in santa pace, infatti, i neo-Pasquani ebbero la grande pensata di dividersi in 12 clan. Due o tre gruppi sarebbero ampiamente bastati per tramare, farsi dispetti l’uno con l’altro, e riempire i lunghi pomeriggi isolani – per chi avesse dei dubbi, ci sono sei stagioni di “Lost” lì a dimostrarlo.
E invece i Pasquani si divisero addirittura in dodici clan. Chissà, forse avevano già in mente di metter su un campionato.
Si spartirono quindi l’isola come una torta, dividendola in dodici fette, e a quel punto ciascun clan si sentì autorizzato a proclamarsi il migliore, il più togo, l’eletto, l’unto dal signore. Gli altri undici, ovviamente, diventarono automaticamente sporchi nemici.
I Pasquani (o Pisquani) però non si autosterminarono con una bella serie di guerre tribali. Sarebbe stato troppo semplice, e anche un po’ banalotto. No, scelsero un modo decisamente più raffinato (e idiota) per plasmare il proprio destino.
Inizialmente infatti i clan non si fecero guerra l’un l’altro. Pur attenti a condurre vite ben separate, mantennero rapporti commerciali scambiandosi le risorse delle rispettive zone e tollerando il passaggio degli altri sul proprio territorio. Ad un certo punto, però, ci fu la svolta religiosa: per propiziare la caccia e i raccolti, i capi di ciascun clan decisero di “deificare” i propri antenati e di rivolgere ad essi le preghiere del clan. E (mossa drammatica), per ingraziarseli ulteriormente, fecero erigere le prime statue in loro onore. E così cominciò la follia.
Erigere un “Faccione” (tecnicamente detto “Moai“) iniziò ben presto a diventare uno status symbol. Un clan tirava su un Moai, e il clan di fronte ne tirava su uno più grande: Ehi, tribù di fianco, erano quelli i vostri antenati? Patetici! Guardate qua che pezzi di marcantonio erano i nostri!
Metti poi che passasse di lì per caso un membro di uno degli altri dieci clan (e in un’isoletta di appena 11 km di lunghezza con 15.000 abitanti l’evento non era così improbabile), anche lui avrebbe preso le misure, e sarebbe corso a casa strillando “Uè ragazzi, quelli dell’altra costa ci vogliono far passare per mammolette. Acchiappate gli scalpelli, si torna alla cava!”. E via così.
Il fatto è che tirar su un Moai non era un lavoretto da domenica pomeriggio. Qualcuno ha calcolato che richiedesse il lavoro di 5-6 uomini per circa un anno. Un anno, figlioli!
Tutte le statue venivano scolpite nell’unica cava, al centro dell’isola, e di lì dovevano poi essere trasportate fino alla posizione finale. Ma scarrozzare degli oggettini pesanti diverse tonnellate per chilometri e chilometri (fino a un massimo di 14, santo cielo), tra un su e giù di colline e foreste, non doveva essere un’impresa banale – non lo sarebbe nemmeno oggi, figuriamoci per gente che non aveva mai sentito parlare di “ruota” e non possedeva alcun tipo di strumento in metallo, men che mai un Caterpillar.
I Pisquani escogitarono però un astuto sistema basato su grandi slitte di legno su cui adagiare i pesantissimi Faccioni ancora caldi di scalpello (venivano scolpiti in posizione sdraiata) e lunghissime rotaie (sempre di legno) su cui far scivolare le slitte. A quel punto bastava radunare tutti gli omoni più grossi della tribù, e metterli metà dietro a spingere come dannati e metà davanti a tirare come ossessi. Per trascinare le slitte venivano usate delle grosse funi ottenute intrecciando le fronde degli alberi. Pare che per spostare un singolo Moai ci volessero qualcosa tra 180 e 250 energumeni. Secondo altre ipotesi, una statua da 12 tonnellate poteva avanzare di di 14,5 chilometri in una settimana (facendo sgobbare 50-70 persone per 5 ore al giorno). Pare che per erigere statue e piattaforme il fabbisogno alimentare globale degli isolani crebbe del 25%.
In ogni caso, un lavoraccio.
Una volta arrivati a destinazione, comunque, c’era ancora il problema di mettere in piedi i Faccioni. E anche qui, i Pisquani trovarono la quadra. Una quadra che coinvolgeva la costruzione di rampe inclinate (di legno), metri e metri di fune, e svariati litri di sudore pro capite.
E, giusto per non farsi mancare nulla, prima di erigere i Faccioni era necessario costruire le già citate piattaforme su cui appoggiarli, dette “Ahu” dal suono che gli isolani emettevano quando, per errore, si scaricavano un blocco di pietra sugli alluci (non è una battuta: sotto a una statua è stato veramente trovato l’osso di un dito umano). Gli Ahu erano formati da blocchi di pietra che pesavano fino a 10 tonnellate l’uno e che, guarda caso, dovevano anch’essi essere trasportati dalla cava fino alla posizione finale.
E qui i più attenti avranno già cominciato a intravedere un trend. Tanti Faccioni da erigere, tante piattaforme da costruire, tanti chilometri da fare, tante rotaie e tante slitte da costruire, tante funi da intrecciare. Semplificando i termini dell’equazione:
Provate a immaginare: sei secoli (dal 1000 al 1600) di costruzione ininterrotta di statue. Sempre più numerose. Sempre più grandi. Ad un certo punto i Pisquani cominciarono persino a mettere sulle statue dei cappelli a cilindro di pietra rossa, detti “Pukao“, pesanti fino a 12 tonnellate, tanto per far diventare le statue ancora più alte. A quale prezzo? Ovviamente altro legno, Watson.
Come ulteriore ciliegina sulla torta, si tenga presente che mentre in tutto il resto della Polinesia la tradizione imponeva che i morti venissero seppelliti, a Pasqua no: si era deciso di cremarli. E per cremare serve…? Esatto signora Longari! Legno, altro legno!
Ora, abbattere alberi non è solo una maniera criminale di deturpare il paesaggio e di mettere in difficoltà chi cerca un po’ d’ombra dopo pranzo per andare a farsi una siesta. Più alberi i Pisquani abbattevano, più si riduceva la disponibilità di frutta. Gli uccelli, non avendo più luoghi in cui nidificare, fecero le valigie. Molte altre specie animali, improvvisamente private del loro habitat, scomparvero una dopo l’altra. Il disboscamento provocò anche un inesorabile impoverimento del suolo, che provocò erosione, frane, inaridimento del terreno, e quindi fine anche della possibilità di coltivarsi l’orticello dietro casa.
A quel punto, senza più frutti spontanei, senza più possibilità di coltivare, senza animali di terra né uccelli, i Pisquani decisero di darsi alla pesca. Ma si accorsero che, senza legno, mettere insieme una canoa può rivelarsi un’impresa insidiosa. Per cui presero a guardarsi l’un l’altro con una luce strana negli occhi, e in particolare quelli più grassottelli cominciarono a sentirsi a disagio.
Questa storia continua… mica tanto, ma ancora un po’, sì. E lo fa qui.
Ispirato da Jared Diamond, “Collasso”, 2004.
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