Penso che vi ricordiate tutti della Rivolta delle Scale.
Avvenne in qualche momento del XXI secolo, non ricordo esattamente quando – purtroppo, le notizie su quel periodo sono ancora estremamente confuse.
Quel che è certo, è che l’evento non colse di sorpresa proprio tutti.
La Natura aveva già dato numerosi segni di insofferenza nei confronti dell’uomo – tutta la Natura: atmosfera, corsi d’acqua, boschi, foreste, pianure, oceani, e praticamente ogni singola specie animale, con l’unica eccezione forse dei chihuahua.
Era quindi abbastanza scontato che anche gli oggetti inanimati sarebbero prima o poi arrivati al punto di mettere in atto la propria ribellione.
E così, dopo i fogli elettronici, le scarpe col tacco, i navigatori satellitari, i forni a microonde, gli schermi dei dispositivi touch e le chiusure lampo, venne il tempo della Rivolta delle Scale.
Dal punto di vista delle scale, in effetti, i motivi per odiare la razza umana c’erano tutti.
Tanto per cominciare, le scale non avevano mai digerito il fatto di essere state addirittura concepite per essere trattate con i piedi.
Ma c’è di peggio.
Per secoli, le scale erano state usate come simbolo delle disuguaglianze sociali, degli squilibri salariali, e dell’abisso che separa gli inferi dai cieli. Vennero impiegate per misurare i terremoti, come simbolo del gioco d’azzardo, e come scusa per imprigionare in posizioni fisse sul pentagramma le note musicali – proprio loro, che invece adorano svolazzare in giro e intrecciarsi nelle armonie più disparate.
Create per essere calpestate, maledette ad ogni cambio stagionale di armadi e ogni volta che si dimentica qualcosa in cantina, e infine umiliate dall’avvento degli ascensori, le scale, un bel giorno, ne ebbero abbastanza.
Oh, lo so cosa pensate. Pensate che forse un po’ di gratitudine avrebbero potuto dimostrarla. Dopotutto, a loro l’uomo aveva dedicato un bel teatro nel cuore di Milano, una famosa soubrette, la più famosa tra le canzoni dei Led Zeppelin, un linguaggio di programmazione, e addirittura un’illustre dinastia veronese, quella del famoso Cangrande.
Che poi, tra l’altro, “cangrande”: ma non c’era a disposizione un nome un po’ più serio?
Ma poi insomma, inutile taraghignare: le scale, semplicemente, ne avevano avuto abbastanza.
E allora si ribellarono. Nello stesso istante, in tutto il mondo, e con impietosa violenza.
Strategici pioli di legno si sacrificarono e saltarono via nei momenti cruciali di delicate operazioni di recupero di gattini da grondaie inaccessibili.
Solidi ganci di sicurezza rinunciarono al loro mandato originario nel corso di pericolose sessioni di imbiancatura.
Robusti gradini di marmo si inclinarono come vele impazzite in innumerevoli rampe condominiali.
Moderne scale mobili si trasformarono in micidiali attrezzi tritacarne in affollati centri commerciali.
Sinuose scale a chiocciola presero vita e come boa impazziti stritolarono tra le loro spire i malcapitati che le percorrevano.
Persino i piccoli balzolini da biblioteca svilupparono molari da pescecane, e azzannarono con precisione e perfidia innumerevoli caviglie inconsapevoli.
Fu il caos. Un poco alla volta, in alcune aree del pianeta, le scale riuscirono a sbarazzarsi dell’odiata presenza umana e a imporre una loro, nuova, società.
Le scale ribelli furono all’inizio ben attente a non ripetere gli errori dei loro antichi padroni.
Basta gerarchie, basta graduatorie, basta privilegi. Scale sì, ma tutte uguali.
Dal gradino più alto a quello più basso, stessi diritti per tutti. Il motto “Un piolo è un piolo è un piolo” venne scalpellato nel marmo delle scalinate di cattedrali e aule di giustizia da volonterose scale da carpentiere, quelle pesanti con le rotelle.
E scalinate e scalette, scaloni e scalei, scale antincendio e scaloni napoleonici, scale mobili e scale immobili impararono a convivere in armonia e letizia l’una con l’altra. Addirittura, scale a pioli si unirono in matrimonio con scale a gradoni, in un turbinar di corrimano.
Per alcuni anni, tutto filò a meraviglia.
Le scale, però, sono notoriamente pigre, e non amano in modo particolare documentare le proprie gesta.
E’ per questo che, per molto tempo, della Repubblica delle Scale si perse ogni notizia.
Oggi però, grazie a un mio importante ritrovamento, possiamo purtroppo far luce su quel che ne fu.
Dico “purtroppo” perché il ritrovamento, come potrete voi stessi constatare, rivela un amaro destino.
L’immagine qui sotto, scattata sul lungomare dell’antica cittadina gallica di Cannes, in corrispondenza del leggendario Palais du Cinéma, fa luce su una sconvolgente verità.
(Non lasciatevi distrarre dalle figure umane. Non sono veri uomini: sono sagome di cartone, che le scale usavano un po’ per farsi quattro risate, un po’ per tenersi compagnia.)
La triste verità, dicevo, è sotto i vostri occhi. Altro che uguaglianza, altro che “tutti per un piolo, un piolo per tutti“.
Questo sconcertante documento mostra con chiarezza cosa ne fu della democrazia delle scale.
Sullo sfondo, la scala califfa. Grande, illuminata, adorna di un ricco tappeto rosso, e protetta da un’ampia pensilina, tutta per sè.
In primo piano, le scale operaie. Tutte in fila, ammassate l’una sull’altra per rendere omaggio alla scala patrizia. Alcune di loro, probabilmente ribelli, crudelmente incatente alle loro posizioni. Costrette con la forza ad assistere ad uno spettacolo che, evidentemente, le feriva e le umiliava.
Che destino beffardo, per una democrazia ugualitaria come quella delle scale.
Quale orrendo rimbalzo orwelliano, rivoltarsi contro una gerarchia, per poi tornare, passo passo, a ritrovarvicisi dentro.
E dire che proprio in Francia una cosa del genere era già successa: ullallà ullallà, allons enfants, vive la revolution, libertè egalitè pereppeppè, e dopo qualche anno tutti lì in ginocchio a incoronare niente meno che un imperatore.
E quindi, cari amici, a quanto pare gli errori di un secolo sono destinati a ripetersi, come un eco, in tutti gli altri.
Mi brucia dirlo, ma la Storia non insegna proprio niente.
O meglio, magari lei insegnerebbe pure. Sono gli scolari a essere un po’ distratti.
Insomma, come diceva Otis Montacarichi, l’inventore dello Stairmaster, “Il mondo è fatto a scale. Chi le scende, poi, risale.”
Tocca quindi mettere in archivio questa storia con un pizzico di amarezza. Un refolo di blues.
(Mica una melodia intera, no. Appena cinque note.
Una pentatonica.
Una scala pentatonica.
Che impari, almeno lei.)
A questo punto aspettiamo il racconto delle rivolte dei fogli elettronici, delle scarpe col tacco, dei navigatori satellitari, dei forni a microonde, degli schermi dei dispositivi touch (bellissima questa!) e delle chiusure lampo!
🙂
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Mmm, potrebbero pure arrivare.
L’importante è che riesca a procurarmi una foto adeguata.
P.S. Ehi, per il tuo nickname credo mi dovresti una royalty… 😉
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Ho trovato davvero interessante il tuo articolo.
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