Oggi mi permetto un aneddoto del tutto personale. Un piccolo episodio che non sposterà l’asse terrestre nemmeno di un capello.
Ma è andata più o meno così: scavavo intorno all’igloo per piantare po’ di lattuga iceberg, e ben incastonato nel ghiaccio mi sono ritrovato sotto al piccone un antico diario di viaggio di un mio lontano bis-bis-bis-bisnonno.
E’ quindi un racconto che risale a svariati secoli fa, a un’epoca remota in cui il bis-bis aveva vent’anni, e talvolta veniva folgorato da idee particolarmente brillanti del tipo: dài, quest’estate niente mare.
Mi faccio un trekking in Nepal.
Occhei. E’ colpa mia.
L’inverno scorso ho sottovalutato la cosa, e adesso posso solo prendermela con me stesso.
Eppure è semplice. Bastava fidarsi: tutti i libri e le guide di questo mondo hanno ragione: in Nepal, in agosto, ci sono i monsoni.
Oggi ne ho avuto la prova ontologica: dieci ore di marcia, su per una salita che a casa non avrei affrontato neanche in funivia, sotto scrosci di pioggia intermittenti che, dopo averti bagnato fin nei recessi più intimi, ti dilavano via anche il buonumore.
Dieci ore a marciare sotto al peso dello zaino, piegato come un Crumiro di Casale (nel senso di biscotto, non di operaio). Dieci ore ogni tanto a fermarsi per togliersi le sanguisughe di dosso, che loro invece nel monsone si divertono un sacco. Dieci ore a chiedermi perché, come ogni ventenne normale, non sia anch’io a rosolarmi su qualche spiaggia greca, o a stordirimi di margaritas in una discoteca di Ibiza, o a fare la lambada strofinera in qualche bagno di Riccione.
E soprattutto non qui, a sudare come un mulo su per le pendici ripide e fangose dell’Annapurna IV.
Intorno alle cinque di pomeriggio il capo sherpa alza la mano e segnala nel suo inglese tattico: dormiremo qui.
Qui è un posto che ha dell’incredibile. Sembra una specie di baracca delle piadine centrata da uno Scud israeliano.
C’è scritto “Lodge”, fuori, “locanda”. Moh. A me sembra più un mucchio di assi che un alieno cocainomane ha depositato con precisione millimetrica sul ciglio di un precipizio spaventoso.
C’è una minuscola sala comune, con un tavolaccio, e tutto il resto è camerata.
La camerata ha una finestra che dà su almeno trecento metri di vuoto, con un fiume, laggiù, lontanissimo. Credo sia quello che abbiamo guadato questa mattina.
In ogni caso, credevo che posti così esistessero solo nei cartoni animati di Wil Coyote e Bip-Bip.
E invece.
Il monsone, che nelle ultime ore ci aveva lasciato un po’ di respiro, sul far della sera diventa all’improvviso un diluvio universale. È bello avere un tetto sulla testa, per quanto precario e sgocciolante.
Consumiamo la nostra cena frugale al buio di una candela. E va bene così, così non ci facciamo tante fisime per il cibo – sempre quello, budda bello, sempre la solita roba che quei disgraziati di portatori si stanno portando sulla schiena ormai da cinque giorni.
Chissà perché, la conversazione con i compagni di viaggio langue. O sono i rimorsi per non essere in crociera, o è che di fiato, proprio, non ce n’è più.
E poi, la notte.
Non so, sinceramente, se ho mai passato un’altra notte così. Ma credo proprio che me lo ricorderei – per certe esperienze non c’è meccanismo di rimozione che tenga.
La nostra camerata, si diceva, è letteralmente sospesa sull’abisso. Il mio letto è inclinato.
Ora, uno dice: te ne freghi; metti la testa dalla parte alta e dormi allegro come un bambino.
Il problema è che il letto è inclinato trasversalmente.
Non so come mai, porcaeva, ma è così. Bisogna stare con gambe e braccia a forbice e a chiappe strette, altrimenti si rotola via.
Ma questo è niente: precisamente sulla verticale del mio letto, c’è un buco nel tetto. E fuori, quasi superfluo ricordarlo, sta infuriando un monsone sproporzionato.
Il letto, naturalmente, è inchiodato al pavimento, e non ci sono altri letti liberi nel raggio di molte miglia. Dormire per terra sarebbe come fare il morto in una palude sporca.
In queste condizioni, l’unica cosa che posso fare è stendere sopra al sacco a pelo l’Invictella, la mantella di plastica in dotazione allo zaino. In questo modo almeno il sacco resterà asciutto, e poi un po’ di protezione in più dal freddo della notte non può che farmi bene.
Il fatto è che, in qualità di essere umano completo, possiedo le gambe. E per tutta una serie di motivi antropometrici su cui è inutile star qui a questionare, le ginocchia sono un po’ più alte della testa. Morale, effetto tenda: l’acqua piovana arriva sulle gambe, e da lì mi rigagnola in faccia e, di riflesso, dentro al sacco. In queste condizioni io, che confesso di essere un po’ viziatuccio, ammetto di non riuscire a dormire tanto bene.
L’unica soluzione è tenere le gambe ben piegate, accentuando l’effetto tenda. In questo modo l’acqua scivola dall’altra parte delle ginocchia, direttamente sul pavimento, senza inondarmi.
Ma ci sono due piccoli inconvenienti: se tengo le gambe piegate, non posso usarle per tenermi stretto al letto. Per cui devo fare tutto di braccia, assumendo una posizione da Cristo in croce che non so se è più comica o drammatica.
Secondo inconveniente: sono talmente stravolto che dormirei anche in punta di piedi e con un ombrello infilato nel retto, ma il guaio è che appena prendo sonno mi rilasso, distendo le gambe, e mi arriva in faccia un’onda anomala, che mi sveglia. È pazzesco, diabolico, roba da Alighieri, il girone dei coglioni.
Inutile dirlo, dopo neanche un’ora sto già male, ho la gola in fiamme, non tiro il fiato (che comunque non ho più), e la fronte è a centomila gradi. Il bello è che indosso praticamente tutto il mio guardaroba, in tre strati. Ma non c’è verso, qualcuno in cielo ha già deciso: sarà una gran notte di merda.
Sono ore lunghissime, scandite dal micidiale plic-plic-plic-plic-plic-plic-plic della pioggia che mi sgocciola sulle rotule con una regolarità da Bulova a diciotto rubini. Sarà questa colonna sonora, sarà la febbre che sale di mezzo grado ogni mille plic, sarà l’odore di maglione bagnato, sarà una combinazione di tutto questo: un viatico perfetto verso il delirio.
E poi, improvvisamente, sono altrove.
Braghe a fiorelloni e brocca di mojito in mano, sono su una spiaggia di Bora Bora, circondato da fanciulle in pareo con collane di fiori bianchi e tette abbronzate al vento.
Nell’aria il profumo delle gardenie di Gauguin e una musica soffusa di ukulele. (Ukulele? In Polinesia? Boh.)
Macchisseneimporta. Domani col cavolo che dovrò farmi altre dieci ore di salita, con lo zaino di cemento piantato sui reni, le maledette sanguisughe aggrappate allo scroto, e le scimmie sugli alberi che tirano i sassi (giuro, tirano i sassi, le stronze).
Domani mi faccio due bracciate in laguna, e poi mi sbafo una cesta intera di frutti della passione.
Anzi, mi faccio imboccare, un pezzetto alla volta, da queste leggiadre e ospitali indigene.
E poi, e poi… Meglio che non ci pensi, o altro che effetto tenda.
Namastè a voi, cari avventurieri. Salutatemi l’Annapurna.
Per me, da ora in avanti è soltanto aloha.
Plic.
Plic.
Plic.
Plic.
E poi, naturalmente, di nuovo in marcia.
Le illustrazioni sono state realizzate usando il pupazzino Ludwig (versione 1.00 – 3/21/06) di Jason Pierce detto Sketchy, che all’uopo ringrazio.
Ludwig character courtesy of Jason Pierce. Thank you, Sketchy!
Ho sofferto per te, mi sono immedesimata tantissimo, soffrivo e gemevo, gemevo e soffrivo…poi ho capito perché… fuori piove, ho dolori dappertutto, c’è una umidità petulante e me lo dice la cervicale infine, a maggiore sofferenza, IL CANE HA SCORREGGIATO. 🙂
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Uh, che spleen! Per fortuna lassù non c’erano cani meteoristici, anche se va detto che il lezzo di yak bagnato può spegnere qualsiasi tipo di ardore…
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Mi ricorda una vacanza estrema fatta da una coppia di cugini con loro amici avventurosi nell’Africa piu profonda. Tra le altre cose finirono il mangiare e allora affittarono una gallina da una tribu e tutti in cerchio a aspettare che facesse l’uovo, uovo eventuale che avrebbero dovuto dividere tra non so quanti! Comunque la gallina si astenne.
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Urka Elisabetta…bell’aneddoto. inoltre io mi sento come la gallina africana. Astenuta, su tante, tantissime cose….:(
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Uau, la scena dei “turisti-no-Alpitur-ahi-ahi-ahi” in cerchio intorno alla gallina a incitare “spingi! spingi!” è da favola!
Mi fa venire voglia di tirar fuori dallo zaino altri aneddoti…
P.S. Comunque alla fine si saranno mangiati la gallina, immagino…
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