Io questa faccenda di far ripartire l’economia non l’ho mica capita tanto bene.
Tra i reperti degli anni ’10 d.u.s. (Dopo l’Undici Settembre) che sto recuperando dalla morsa dei ghiacci, stanno emergendo montagne di articoli e telegiornali in cui si ripete, ossessivamente, il tormentone: “Bisogna far ripartire l’economia, la priorità è far ripartire l’economia, forza ragazzi, facciamo ripartire l’economia”.
E’ un concetto mica tanto facile da mettere a fuoco. L’economia, dicono i sacri testi, non è una vecchia battona ubriaca che al sedicesimo bicchierino si è schiantata sul pavimento. Magari fosse così: in quel caso, basterebbe avere un po’ di pazienza, tener pronto un thermos di caffè, e aspettare. Prima o poi, un bel rutto e si riprenderebbe da sola.
La faccenda invece è un po’ più complicata. L’economia è un meccanismo complesso, fatto di ingranaggi delicati e spesso poco visibili. Ma, soprattutto, è manovrata, seguita e subita da uomini. Se deve ripartire, saranno degli uomini a farla ripartire, non certo l’incedere meastoso del Tempo.
Ogni volta che scongelo un frammento in cui si parla di far ripartire l’economia, per qualche motivo mi si forma in mente l’immagine di un branco di scimmioni che saltano e strillano intorno al relitto di un Cessna che si è schiantato nella giungla. “Uga! Uga!”, urlano gli scimmioni battendosi il petto, “Uga! Uga!”.
[Per chi non fosse pratico di etologia, preciso che “Uga! Uga!”, in slang gorillesco, è una specie di esortazione che si potrebbe tradurre con “Figo, questo! Dài, rimettiamolo insieme, che poi si va a fare un voletto tutti insieme! Rimettiamolo in moto! Facciamolo ripartire!”.]
Che è poi è una scena analoga a quella capitata nel deserto del Nuovo Messico, in località Roswell, nel luglio del 1947, quando si schiantò un disco volante, e un nugolo di militari eccitati si mise a zompettargli intorno in attesa che ne uscisse qualcuno in grado di spiegargli il segreto dell’antigravità e del raggio della morte.
Ma questa è un’altra storia, e (forse) ve ne parlerò un’altra volta.
Oggi vorrei provare a immedesimarmi nei panni di un primate del primo XXI secolo, e darmi una risposta.
Per far ripartire l’economia servono sforzi, idee, azioni, coraggio, ripensamenti, ristrutturazioni. Non danze tribali, non slogan, non fiaccolate. C’è una serie precisa di attività che spettano ai governi dei vari Stati: o vengono fatte, o l’economia non ripartirà. Altre cose invece spettano ai grandi capitalisti, agli imprenditori: sono loro che devono darsi una mossa, se vogliono che la macchina si rimetta in moto.
Ma ci sono anche azioni specifiche che toccano ai sindacati, alle banche, agli investitori, ai professionisti, ai lavoratori dipendenti, ai consumatori, ai disoccupati, alla leggendaria casalinga di Voghera. Ce n’è per tutti. Ognuno deve recitare la sua parte, suonare il suo pezzettino di spartito, e solo allora si può sperare in una esecuzione corale nuovamente degna di una grande orchestra.
Facile eh? Beh, in effetti un problemino c’è.
Il problema è che lo spartito… non c’è. O meglio, sicuramente c’è, da qualche parte, ma non è ben chiaro dove sia nascosto. O (ancora meglio), di spartiti ce ne sono troppi, troppo maledettamente diversi uno dall’altro, tutti con incipit maestosi ma con le pagine più avanti sbiadite, poco chiare, forse addirittura ancora da scrivere. Ci sono tante mezze idee, lungimiranti fino a domattina, ma nessun piano di lungo periodo coerente e condiviso.
E allora hic sunt leones (i leoni sono ubriachi, fanno “hic!”). Il guaio non è che ci siano tante voci che gridano soluzioni pronte all’uso, una opposta all’altra. Il guaio, quello vero, è che in tutto questo bailamme di fanfare, sparate, veti ed accuse reciproche, troppo spesso ci dimentichiamo di prendere di petto il Vero Problema: stiamo navigando a vista.
E’ giusto rendere precario il lavoro e dare maggiore flessibilità alle aziende? O è più giusto garantire un posto di lavoro alle persone, n’importe quoi? Dovremmo aumentare i volumi di merci commerciate, o dobbiamo cercare di ridurre l’inquinamento? Dovremmo spingere per le energie alternative, o dobbiamo preoccuparci per le migliaia di lavoratori del settore petrolifero che potrebbero restare senza lavoro? Dovremmo andare tutti all’Università, oppure obbligare i meno portati per lo studio a indossare tuta blu e scarpe antinfortunistiche? Dovremmo cancellare gli enti e le professioni inutili, o dobbiamo creare occupazione? Dovremmo far morire di vecchiaia la gente sul posto di lavoro, in modo da non dovergli pagare la pensione, o dobbiamo fare spazio ai giovani? Dovremmo sviluppare tecnologie più avanzate, o tornare alla terra e alle produzioni ecosostenibili? Dovremmo lasciare agli immigrati i lavori più duri, pericolosi e malpagati, oppure dobbiamo mandarli via e giocarci alla lotteria chi di noi se ne farà carico? Dovremmo tenere le porte aperte a lavoratori stranieri, o vogliamo decidere che sul sacro suolo patrio gli unici che hanno diritto di voto e libertà (di credo e di costumi) siano gli indigeni? Vogliamo diventare una terra di industria o di turismo? Di ricerca o di produzione? Di calciatori o di scienziati?
Magari avessi le risposte. Cercherei di convincervi, uno per uno. Ve le rivelerei sottovoce, oppure le urlerei ai quattro venti con tutto il fiato che ho in corpo. Non lo so, in un modo o nell’altro non potrei, e non vorrei fare altro che svelare il Grande Piano per il Futuro dell’Umanità. Solo che, sfortunatamente, non ce l’ho.
Però il problema è tutto lì. Se voglio pianificarmi delle vacanze sensate, prima devo decidere se voglio visitare Roma o Venezia, se voglio andare al mare o in montagna, se viaggerò da solo o con la famiglia. Poi posso pensare alle prenotazioni.
Senza una mappa, senza un piano chiaro e dettagliato, tanto vale che me ne resti a letto.
E allora, cari gorilla, l’economia non ripartirà. Ripartiranno alcune attività, si creerà dell’altra ricchezza, e se ne perderà altrettanta (non ci sono santi, è un sistema chiuso). Putroppo né io, né nessun Nobel attualmente in circolazione abbiamo in tasca una soluzione pronta. Non esiste, seppellita in qualche forziere, una mappa miracolosa che possa guidarci fuori dal pantano.
Un piano lungimirante e compiuto deve necessariamente prendere una posizione concreta rispetto a tutte quelle domande là sopra, e a molte, molte altre. Finché non avremo discusso per bene di quegli argomenti, finché non li avremo sviscerati a fondo, finché non gli avremo dedicato almeno una parte del tempo che dedichiamo a navi affondate, delitti in famiglia, cavallini rampanti azzoppati, pancioni di star e contropiedi in fuorigioco, fino ad allora non ci sarà nessuna economia da far ripartire. Non c’è da aspettarsi che la casa venga su da sola, se non si trova il tempo nemmeno per fare il progetto.
Smettiamola di ballare, smettiamola di sperare, e cominciamo a riflettere.
Che straordinaria capacità di sintesi che hanno i gorilla.
Ma cosa significa “bunga bunga” nel loro vernacolo?
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In effetti le scimmie vanno abbastanza per le spicce.
Cosa significa “Bunga bunga”? Non me la cavo un granché con il gorillesco, sono più a mio agio con il macachiano. Comunque, dalla lettura dei libri di Desmond Morris, Konrad Lorenz e Mariangela Fantozzi posso ricavare questa traduzione.
Il linguaggio dei primati è incrementale, ossia una parola assume significati diversi a seconda del numero di volte che viene ripetuta.
Così, “bunga bunga” di base significa “Non ho una politica economica”.
Se ripetuto DUE volte, significa invece “Non ho una politica economica, e me ne impipo del welfare”.
Se ripetuto TRE volte, significa “Non ho una politica economica, e me ne impipo di welfare, istruzione, ambiente ed energia”.
Se ripetuto QUATTRO volte, significa “Mi farei volentieri quella con le tette grosse”.
Per cui la morale è: come per tante altre cose (la cioccolata, i viaggi in barca, le speculazioni in Borsa), in sè, è una porcata. Ma farlo tanto, è una pacchia.
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per me far partire l’economia significa soltanto maggior serietà a tutti i livelli invece da noi è stata intesa come esplicazione di furbizia, e con la furbizia non si gestisce l’economia ma si impianta tutto, niente progetti ma improvvisazioni.
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Hai perfettamente ragione, Roberto! “Niente progetti, ma improvvisazioni”. Una società può sopportare solo una piccola percentuale di “furbi”. Che ne so, l’1-2% , o magari anche il 5-6%. Ma non di più.
Qui da noi, invece, i “furbi” sono la maggioranza. E così non funziona.
Se i parassiti aumentano oltre una certa soglia, si mangiano tutto l’organismo ospite, e finisce la festa.
E’ per questo che sono convinto che, volenti o nolenti, dobbiamo imparare TUTTI a ragionare su questi temi, a crescere in consapevolezza, e a non dare per scontato che debbano essere “gli esperti” ad occuparsene.
Gli “esperti”; come ci hanno ampiamente dimostrato, sono dei furbetti.
Noi, se non vogliamo fare una fine da fessacchiotti, dobbiamo darci da fare. Subito.
Torna a trovarci, ciao!
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