Come ho raccontato qui e qui, la storia dell’isola di Pasqua è sensazionale nella sua follia. La follia di un popolo che arriva ad autoestinguersi per il gusto di costruire delle statue, che ufficialmente rappresentavano degli antenati illustri, ma che in realtà erano un modo elaborato di dire “io ce l’ho più lungo del tuo”.
Insomma, tagliarono tutti gli alberi. E, finita la legna, finirono gli animali, la possibilità di costruire, cuocere, cremare i cadaveri, costruire canoe per pescare. E il terreno si inaridì, rendendo impossibile coltivare. Eppure, ancora per qualche tempo, continuarono a scalpellare – circa metà delle statue dell’isola sono ancora là, nelle cave di Rano Raraku. Perché più le cose si mettevano male, più diventava importante chiedere aiuto agli dei. E quindi diventava sempre più pressante costruire statue ancora più alte.
Quando ormai avevano esaurito tutto il legno disponibile, quando gli animali erano spariti, e quando complessivamente erano arrivati agli sgoccioli, continuarono a scalpellare. Dire che non furono capaci di cogliere alcun segnale è un eufemismo. Questa gente ha continuato a premere sull’acceleratore mentre il cofano dell’automobile si stava già schiantando sul muro.
Ancora oggi nella cava si possono osservare abbozzi di statue di dimensioni tali che probabilmente non sarebbe mai stato possibile trasportare e issare sulle piattaforme. Ma, dico io, da che tipo di megalomania erano divorati questi tipi?
Nel 1680 la casta dei sacerdoti, evidentemente non più in grado di garantire prosperità e abbondanza, venne deposta da una ribellione capitanata da capi guerrieri. Gli equilibri saltarono, e fu guerra civile totale. Gli Ahu vennero smantellati per recintare orti e fosse comuni. Le statue dei clan nemici vennero abbattute, rendendo così doppiamente inutile la loro costruzione. Nel giro di breve, non restò altro che rovine.
Vista la situazione in cui avevano ridotto l’isola, ai Pisquani non restavano molte scelte per sopravvivere: o mangiare la terra, o mangiarsi tra loro. Per una serie di ovvi motivi, scelsero la seconda strada. Ma ormai si erano ridotti a creature deboli, sempre più stanche, e probabilmente anche depresse. Nel 1774 il capitano Cook passò da quelle parti e descrisse gli isolani come “piccoli di corporatura, scarni, timidi e infelici”.
Messi com’erano messi, dovettero rinunciare a costruire ulteriori faccioni, ma quelli che avevano ancora qualche energia scolpirono dei piccoli Moai detti “Kavakava” (probabilmente da tradurre “togli togli”, chiara allusione alla loro dieta), che rappresentano individui emaciati, con gote incavate e costole a fior di pelle.
Dopo il breve soggiorno del capitano Cook, per la serie “piove sempre sul bagnato” sbarcarono sull’isola alcune spedizioni provenienti dall’Europa, che portarono in regalo malattie letali, a cui gli abitanti non erano mai stati esposti prima. Una delle peggiori fu una micidiale epidemia di vaiolo nel 1836, che spazzò via una fetta consistente della popolazione.
A partire dal 1805, nonstante le loro scalcinate condizioni fisiche, gli abitanti di Pasqua finirono vittime del traffico di schiavi.
Nel 1863 una flotta di navi provenienti dal Perù si portò via circa 1.500 persone, dimezzando ulteriormente il numero degli abitanti rimasti. Dietro pressioni diplomatiche, il Perù ne rimpatriò una dozzina (i soli sopravvissuti) che però portarono a casa un’altra epidemia di vaiolo.
Nel 1872 erano rimasti sull’isola solo 111 individui, poveretti, non oso pensare in quali condizioni fisiche e psicologiche. Nessuna sorpresa se a nessuno di loro venne in mente di metter su un club Mediterranée e a darsi all’animazione turistica.
Nel 1888 l’isola di Pasqua fu annessa al Cile e diventò un allevamento di pecore gestito da una società scozzese. Gli abitanti furono (nuovamente) ridotti in stato di schiavitù. Soltanto nel 1966 divennero cittadini cileni.
Ha una morale questa storia? Boh. Forse. Vediamo un po’.
Ispirato da Jared Diamond, “Collasso”, 2004.
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