E va bene, generalizzare è, in sè, una scemenza. Ho conosciuto gente di colore che non sapeva ballare, scandinavi espansivi, genovesi generosi e tedeschi pasticcioni. Però, a volte, una sana generalizzazione aiuta a chiarirsi le idee.
E’ come alzarsi in volo su un aeroplano: all’improvviso, tutti quegli alberi, fossati, cespugli e filari apparentemente alla rinfusa prendono le forme di campi ordinati, squadrati in modo logico e razionale.
In “Geopolitica delle emozioni” (wow, che titolo) Dominique Moïsi fa una riflessione niente affatto banale: nei primi anni del XXI secolo, dice, il mondo era come diviso in tre zone.
Non si trattava di blocchi politici, militari o ideologici. Non erano tre superpotenze colorate in modo diverso sui mappamondi. Tutt’altro: si trattava di tre “continenti virtuali” accomunati non da una stessa lingua, una stessa moneta e uno stesso passaporto, ma dallo stesso orientamento emotivo. Tre aree con un’anima diversa, e ben precisa.
La prima area era l’Occidente, nel senso di Europa e Stati Uniti.
In questa zona, il sentimento predominante era la paura. La paura di aver perso per sempre il proprio privilegio di favoriti del mondo, la paura di non essere più all’altezza dei nuovi paesi emergenti, la paura di essere fatti bersaglio delle rivendicazioni dei nuovi arrivati, e del terrorismo globale. La paura di un futuro ogni giorno leggermente peggiore del presente. Una paura perfettamente sintetizzata dal vocabolo che più veniva usato per descrivere il presente: “crisi”. Crisi economica, crisi energetica, crisi di valori, crisi tecnologica, crisi industriale, crisi vocazionale… Mille facce della stessa paura.
La seconda area era invece rappresentata dal mondo musulmano, dominato dalla cultura dell’umiliazione. Umiliazione perché, nell’antichità, questa era la culla della civiltà. Di tante, meravigliose civiltà.
Al posto di tanto splendore, invece, all’inizio del Terzo Millennio non si vedeva che miseria, guerra e devastazione. Gli sfortunati popoli di queste terre soffrivano di un’umiliazione così profonda e disperata da averla spesso tramutata in risentimento, astio verso tutti coloro che quello splendore lo avevano cancellato o se lo erano portato via. Si trattava di un risentimento talmente acuto da aver fomentato la nascita su larga scala di eserciti di disperati pronti a rinunciare addirittura alla propria vita pur di causare qualche lutto, pur se minimo, agli “altri”.
E infine c’era la terza area, la più grande geograficamente: quella rappresentata da Cina, India, e da tutti gli altri cosiddetti “paesi emergenti” (in Asia, in Sud America, e in parte anche nell’Europa dell’Est). In questa area sconfinata (spesso chiamata sinteticamente “Cindia”) la cultura prevalente era quella della speranza: la coscienza di essere all’alba di una nuova era di splendore e di grandezza. Casomai ci fossero dubbi in proposito, un’occhiata alle statistiche internazionali sarebbe più che sufficiente. Mentre nelle altre due aree tutti gli indicatori standard picchiavano decisamente verso il basso, Cindia ogni giorno batteva (in positivo) i record del giorno precedente. Come si dice, “l’unico limite è il cielo”.
Vi pare una classificazione troppo semplicistica? A me, per quanto possa contare, sembra invece un’analisi molto raffinata.
Di solito si racconta la Storia basandosi sui grandi imperi, i grandi conquistatori, le guerre, le carestie, le riforme economiche e le invenzioni rivoluzionarie. E quando si vuole interpretare il presente si chiamano in causa motivi storici e geografici, disponibilità di fonti energetiche, eventi naturali, e altre circostanze – piovosità, vulcani, terremoti, pescosità, eccetera. Tutte robe fisiche, solide, grandi. Tutto hardware.
Questo libro invece cerca di interpretare la storia da un prospettiva molto più sottile, software, estremamente umana.
Il presente come stato emotivo.
Mi sembra un’idea interessante.
Ispirato da Dominique Moïsi, “Geopolitica delle emozioni”, 2009.
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