Spiaggia di un isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1943.
Il sergente Nicola Lorusso si concentra per parare un rigore al soldato semplice Antonio Farina, in arte “nasino”.
All’improvviso si materializza dal cielo il monomotore del tenente Carmelo La Rosa da Palermo, che atterra in mezzo al campo e guarda sbigottito lo sparuto drappello di naufraghi.
Udita la loro storia, esplode il suo stupore con la mitica: “Minchia, sono ciè anni che state qua. Non ci posso pensare. Ciè anni.”
Ebbene sì, sono ciè anni che stiamo qua.
Non sull’isola greca, eh. Su internet. Su Afterfindus.
Ciè anni di blog.
Non sono mica pochi, ciè anni. A un certo ragazzo palestinese di tanto tempo fa ciè anni sono ampiamente bastati per passare da garzone di bottega della falegnameria di suo babbo a oggetto di culto per innumerevoli generazioni.
A Mozart sono bastati per diventare da infante piscione a sublime compositore.
In ciè anni Steve Jobs è passato da fricchettone senza un soldo in tasca a fricchettone con più soldi in tasca di parecchie nazioni della Terra (prese tutte insieme).
E quindi chissà, magari ciè anni sono il momento giusto per andare a vedere se qualcuno degli obiettivi per cui è nato questo blog si sono realizzati.
Perché Afterfindus non è mica nato in un pomeriggio che la Playstation era rotta. C’erano alcune idee, dietro. Vaghe, indistinte, ma idee.
Ad esempio, ricominciare a scrivere. Era passato troppo tempo da quando andavo in giro con dei fogli dattiloscritti a scocciare il prossimo. E intanto la vena si era inaridita, il muscolo atrofizzato, la miniera esaurita. Tempo di riprovarci, tempo di ricominciare.
Obiettivo numero due: tornare in sella. Che vergogna: io, da sempre futurofilo e tecnoentusiasta, ad un certo punto della vita ho perso il grip con la cresta dell’onda e mi sono lasciato distrarre da noiose questioni di sopravvivenza. E in un lampo, il treno del futuro mi è schizzato via.
Io, che surfavo la rete molto prima che “surfare” e “rete” avessero questo significato, mi ero perso la rivoluzione del Web 2.0, il grande gioco dell’interattività. Che indecenza.
Ma non esiste: aspettami, futuro. Arrivo subito.
Esaurite le ragioni autobiografiche, la nascita di Afterfindus è legata a una serie di altri ottimi, e scontatissimi, motivi. Primo dei quali, naturalmente, aprire una finestra sul mondo, e vedere se affacciandomi di lì avrei potuto capirci qualcosa di più.
E in questo senso, effettivamente qualche lezioncina sta venendo fuori. Ad esempio:
B. Il secondo articolo più cliccato è “Corpo di donna nuda straziata dagli scoiattoli”, e questo da solo la dice molto più lunga di qualsiasi trattato pissicologico o di costume.
Disperati sì, ma morbosi, e sempre con la mano sulla patta.
C. Al terzo posto svetta solitaria “La vera traduzione di ‘Bohemian Rhapsody’”. Un successo, anche se devo dire che da quando l’ho pubblicato ci sono dei tipi strani che si aggirano intorno a casa mia, specie dopo il tramonto. Uno (sarà una mia idea) denota una impressionante rassomiglianza con Brian May, anche se in mano non ha una chitarra ma un piccone da ferroviere. L’altro sono quasi certo che sia Cesare Previti, o forse il fidanzato di Flavia Vento. In ogni caso, hanno entrambi l‘aria seccata.
Un’altra delle idee dietro ad Afterfindus (la quarta, esatto) era quella che non so ancora se battezzare l’”ipotesi suicida”, la “fabula rasa”, o la “variante arrogante”.
L’idea infatti era quella di capire se e come funzionano ‘ste benedette reti sociali, e se davvero sono migliori e più ramificate / democratiche / efficienti / sorprendenti / efficaci dei cari, vecchi, frusti rapporti umani offline.
E l’unico sistema che mi è venuto in mente è stato quello di tessere la tela nascondendo la mia identità terrena, in modo che l’analisi fosse il più possibile obiettiva e sgocciolata dal contesto.
Parlare, senza che si sappia chi sono. Senza che mi si possa valutare in base a mille altri parametri che, oggettivamente, con il blog non c’entrano niente.
Ricominciare dal grezzo, conquistare ogni nuovo lettore da zero, solamente attraverso i miei balbettii deliranti, senza poter far conto su ricordi comuni, esperienze condivise, spruzzi di feromoni, e naturalmente senza i lussuosi cocktail in villa che amo dispensare per le masse tutti i primi giovedì del mese (per non parlare delle famose orge del plenilunio) che inevitabilmente avrebbero finito per inficiare i giudizi in mio favore.
Mica facile, eh, rinunciare così, di botto, ai miei sedici milioni tra sudditi, schiavi, dipendenti, parenti, amanti e amici di vecchia data. Ma utile.
Perché, effettivamente, ho imparato qualcosa.
Ho imparato ad esempio che i sei gradi di separazione, i super-aggregatori anomali, gli attrattori strani, le connessioni neurali, i grafi, e tutte quelle cose là.
Sono.
Semplicemente.
Un’opzione.
Gente, c’è poco da friggersela. Nel web, come nel meb, farcela da soli è un’impresa micidiale.
Con la spintarella giusta, invece (e come sempre), il limite è il cielo.
Esempio? Beh, uno si sbatte come una scimmia per far propaganda al sito – sfruttando anche tecniche non convenzionali e guerrilla marketing: volantini, magliette, scritte su monumenti antichi, parties con anestetico e tatuaggi, omicidi rituali – e le visite rimangono sempre più o meno quelle.
Poi un bel giorno un vero VIP scrive quasi per sbaglio sulla sua pagina Facebook: “Ah, e se volete qui c’è una storiella divertente” e sbadabang, le statistiche sulle visite di quei due giorni diventano le Twin Towers sullo skyline di Alberobello. Vè che roba.
(Per la cronaca, il VIP era l’immenso Natalino Balasso e l’articolo era “Lo spread: consigli alle maestre”. Thank you so much, Natalino. Dacci oggi il nostro video quotidiano, rimetti con noi sul nostro debito, non ci indurre in tentazione, e continua a liberarci dal male. Amen.)
E quindi insomma prendete pure i sei gradi di separazione e infilatevi nell’anulare.
Digitale o pedestre, è sempre lo stesso vecchio mondo. Aumma aumma.
Ma c’è ancora una cosa che ho imparato in questi tre anni. Una cosa che ha reso il viaggio degno di essere vissuto, e che me lo farà proseguire ancora a lungo.
Ho scoperto che ci sono in giro un sacco di persone straordinarie. Ma straordinarie sul serio, che in una vita migliore, con più tempo, andrebbero conosciute individualmente, una per una.
Gente che non assomiglia per niente al paese che viene ritratto dai quotidiani e dalla televisione, gente invisibile all’Istat, gente che non viene invitata nei talk show, che non dirige testate, e probabilmente neanche grandi imprese, gente che non ci governa, e soprattutto gente che non si può scegliere quando ci si rinchiude nell’armadio con il numerino a mettere la crocetta.
Eppure, gente di una simpatia e di una ricchezza entusiasmante.
C’è chi scrive di ambiente, chi di energia, chi di cucina, chi di arte, chi di scienza, chi di economia, chi di storia, chi di cinema, chi di politica, chi fotografa, chi disegna, chi semplicemente racconta i cacchi suoi, o di qualche suo conoscente.
Ce n’è di giovani e imberbi e di maturi e moltoberbi, di ogni sesso e dislocazione geografica possibile. Ce n’è di prolifici e di, come me, tendenti al bradipismo moviolante più svergognato. C’è chi non fa mai mancare un commento e chi li centellina – ma quando sgancia, sgancia forte.
Presa tutta insieme, questa gente costituisce un microcosmo dannatamente migliore di quello che c’è là fuori, dietro al monitor.
Che poi “migliore”, oddio che parolonza. Diciamo più simpatico, interessante, intenso, scoppiettante, arricchente. Migliore.
Boh. Chissà se me lo sto sognando. Magari, se ci trovassimo tutti insieme in un capannone, dopo qualche minuto ci prenderemmo a ditate negli occhi, in tutte le permutazioni possibili.
Eppure, dopo una dura giornata spesa nel mondo reale, è bello togliere il tappo alla chiavetta e ritrovarvi lì, ognuno con la sua secchiata di novità. Siete tanti. Non riesco nemmeno a rispondervi e a commentarvi come vorrei. E più aumentate, meno ci riuscirò.
Ma avete colorato di saggezza e di follia questi tre anni.
Grazie a tutti.
Per la sequenza iniziale si ringrazia “Mediterraneo” di Gabriele Salvatores, 1991.
L’ha ribloggato su Cor-pus.
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Non c’é commento che tenga.
Leggere cotanti versetti, ricamati a punto croce su un vile schermo, eleva lo spirito e ci fa sentire disperati come pidocchi sperduti sul coperchio del cesso.
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Mi associo a BORTOCAL. Io sono quel pidocchino in alto a destra che agita una bandierina con su scritto: Sei un grande, Niarb. Ciao, E
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No dài Elisabetta dammi di te un’immagine un po’ più leggiadra! 🙂
Grazie comunque, dear!!!
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Urca, non era esattamente questo il tipo di sensazione che speravo di trasmettere.
Ma in effetti, a ripensarci bene, i pidocchi sul coperchio dovrebbero essere molto più contenti di quelli sotto, per i quali lo tsunami finale appare inevitabile.
E poi un bel coperchio bianco e levigato fa tanto pista di pattinaggio del Rockefeller Center – un archetipo cinematografico assai raffinato (da Woody Allen a “Harry ti presento Sally” a infiniti altri).
E quindi, in alto i pollici per la disperazione dei pidocchi, e un grazie speciale ai commentatori sempre puntuali… e puntuti! 😉
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Io che a ottobre di anni ne faccio 6 sottoscrivo quanto dici. Rispetto ad altri ho il vantaggio (?) di sapere chi sei visto abbiamo passato indimenticabili pezzettini di vita insieme, dalla pubertà alla attuale senescenza. Che tu scrivessi bene lo sapevo già da più di trent’anni e di sicuro mi aspettavo questo livello di qualità. Da una bella testa non ci si può aspettare altro.
Fama e soldi forse non te ne verranno, ma soddisfazioni, quelle sì.
Altri 300 di questi giorni.
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Tu ne fai sei (double minchia) e io resto basito a constatare la tua pazzesca creatività quotidiana. Ti meriti i milioni di visite che ricevi, Hal, e sarebbe ora che qualcuno ti ingaggiasse per una rubrica fissa da qualche parte.
Il fatto che noi due ci si conosca, in ogni caso, deve essere gestito con delicatezza. Non vorrei mai che, in un momento di rilassatezza, ti scappassero racconti di quando arredavamo le pareti di case altrui con fontane di spaghetti scotti, di quando dedicavamo serenate a base di blues scurrili alle nostre dirimpettaie, di quando bestemmiavamo alle vacche in India, e di quando scorrazzavamo per i corridoi di seriosi alberghi teutonici nudi e avvolti nella carta igienica.
Mi raccomando, certe cose tienile per te.
…e grazie!! 😉
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