Dicono che gli uomini abbiano bisogno di grandi storie, per darsi un senso.
Avventure epiche, con mostri terribili, eroi coraggiosissimi e imprese spettacolari.
Purtroppo, invece, le nostre cronache quotidiane sono spesso popolate da uomini piccoli, gretti e litigiosi, capaci soltanto di intrighi, vigliaccherie ed egoismi miserabili.
E il terzo millennio, in effetti, sul piano dell’epica si sta al momento dimostrando un fiasco totale.
Eppure, proprio questi anni sono stati teatro di quella che gli storici del futuro (e lo dico a ragion veduta) ricorderanno come un’epopea memorabile. La storia della caccia a Bin Laden.
Tranquilli, non ho nessuna intenzione di lanciarmi in un pippone geopolitico. Non fingerò di essere un esperto di terrorismo, di politica, di guerra, o di un mix di tutti e tre. La storia della caccia a Bin Laden si può leggere anche spogliata di tutti i suoi significati contingenti, proiettata in una dimensione senza tempo.
La dimensione, per l’appunto, dell’epica.
Perché, sì. Gli elementi dell’epica, a pensarci, ci sono tutti.
La storia della caccia a Bin Laden ricalca il classico archetipo della vendetta, l’inevitabile catarsi seguita al più spettacolare crimine di tutti i tempi.
Ma è anche la storia di un incredibile inseguimento, giocato su tempi omerici e su un palcoscenico grande come il mondo.
Ed è la storia di un genio del male che tiene in scacco i sofisticati servizi segreti del grande impero bianco.
Ed è infine la storia dello scontro più straordinariamente asimmetrico di tutti i tempi: un uomo solo contro l’esercito più grande e potente del pianeta.
Ma soprattutto, è la storia di un miliardo di storie più piccole, incastrate una dentro l’altra come bambole talebane.
Storie affascinanti, storie interessanti, storie rivelatrici. Storie che purtroppo i media nostrani hanno dimenticato di raccontarci, probabilmente distratti dal solito gossip scopereccio o dalle vicende dei burattini del pallone.
Pensateci un attimo: la seconda guerra mondiale è durata cinque anni, e oltre mezzo secolo dopo continuano a uscire libri e film che la raccontano. La caccia allo sceicco errante è durata il doppio: potete immaginare quanto ci sia da raccontare?
Per la verità, ci sono in giro già un paio di film sull’argomento, ma non li ho visti e quindi non mi pronuncio. Ho invece letto un libro fantastico, ed è da questo che ho tratto i tre curiosi episodi che mi accingo a raccontare.
Per la cronaca, il libro è “Manhunt” [Caccia all’uomo], di Peter L. Bergen. Sottotitolo: “La ricerca decennale di Bin Laden, dall’undici settembre al (rifugio di) Abbottabad“. Non so se l’hanno già tradotto.
I tre episodi non sono né i più sconvolgenti né i più significativi tra tutti quelli accaduti in quei dieci anni. Ma mi hanno colpito, perché hanno un tratto in comune. Quale, potrete deciderlo da soli.
Episodio 1: Osservare.
Episodio 2: Agire
Episodio 3: Misurare
Osservare
Per un momento, subito dopo l’invasione dell’Afghanistan, gli americani hanno avuto Bin Laden letteralmente tra le mani. Le rovine del World Trade Center stavano ancora fumando, e la micidiale macchina bellica degli Stati Uniti era già riuscita a imbottigliare in un cul-de-sac senza vie d’uscita il grosso delle forze talebane e di Al Qaeda nella valle rocciosa di Tora Bora.
Fino a quel momento, l’invasione dell’Afghanistan era andata decisamente liscia: erano morti più giornalisti che soldati e, questi, quasi tutti in incidenti auto-inflitti. Nessuno in combattimento.
Con i cattivi in trappola, i caccia USA e l’Alleanza del Nord avrebbero potuto comodamente giocare a un tranquillo tiro al bersaglio, abbattendoli uno a uno. Oppure avrebbero potuto sigillare la stretta gola che costituisce l’unico accesso alla valle, e prenderli per fame.
Invece, si resero protagonisti di una delle più clamorose cappelle strategiche della storia, e si lasciarono sgusciare Bin Laden letteralmente tra le dita.
Anche qui, un film ci starebbe a pennello: lo sceicco malvagio a cavallo e con la barba al vento, che nottetempo si lancia al galoppo in uno spericolato slalom tra i posti di blocco della CIA, i carri armati dei Berretti Verdi, le trincee della Delta Force e gli accampamenti dei signori della guerra, e li fa fessi tutti. Senza nemmeno avere il fisico palestrato di Stallone, o di Governator. Un blockbuster assicurato – considerato che non si tratta di una leggenda, ma della verità ufficiale.
Fu così che Bin Laden sparì per davvero. E mentre i servizi segreti americani, travolti da quella che probabilmente si può definire la più mostruosa figura di melma della storia, si affannavano a cercarlo in tutto il mondo, lui si organizzò in tutta tranquillità la pensione.
Attraverso degli intermediari, acquistò un pezzo di terra in una tranquilla cittadina di villeggiatura pakistana, Abbottabad, e vi fece costruire una villetta a misura delle sue necessità.
Un piano terra per ospitare la famiglia del corriere di fiducia, due piani spaziosi per le due mogli più anziane e una dozzina tra figli e nipoti, e un terzo piano tranquillo e senza finestre per sè e per la moglie più giovane, mademoiselle Amal.
Terrorista sì, fondamentalista sì, ma mica scemo.
Fuori dall’edificio (che gli americani chiamarono “compound“, perché “attaccare il compound” fa figo, mentre “attaccare la villetta” suona ridicolo) il Bin volle un giardinetto, e lo fece circondare da alte mura anti-intrusi e da una pensilina coperta da rampicanti in modo da proteggere le sue passeggiate quotidiane dallo sguardo indiscreto dei droni e dei satelliti militari.
E così, mentre a Langley fioccavano segnalazioni di avvistamento in Africa, Medio Oriente, Sudamerica, riviera romagnola, e sul disco volante di Elvis Presley, tra il 2004 e il 2005 Bin e famiglia si trasferirono in incognito ad Abbotabad e cominciarono la loro nuova vita.
Gli americani ci misero sei anni per trovarlo, e vi garantisco che in quei sei anni ne successero di tutti i colori. Leggete il libro, guardate i film: vi farete un’idea. Per ora vi basti sapere che, dopo un’infinità di arresti, torture, tradimenti, omicidi, pedinamenti e blocchi di coronarie (soprattutto a Washington), finalmente quelli della CIA trovarono l’occasione per riscattarsi.
In qualche modo riuscirono infatti a identificare Abu Ahmed al-Kuwaiti come il pony express ufficiale di Bin Laden, e lo seguirono fino alla casetta di Abbottabad.
A quel punto, però, le cose si incasinarono. La casa fu messa sotto doppio controllo segreto, ma di Bin Laden o delle sue mogli, nessun segno.
Gli americani non potevano usare i loro classici metodi investigativi (bomba, irruzione, smitragliate dappertutto, e niente “permesso?”) perché Abbottabad è in Pakistan, e il Pakistan è (1) un Paese sovrano, e (2) un alleato (almeno sulla carta) degli Stati Uniti. Cowboy va bene, fenomeni va bene, ma non esageriamo.
L’unica alternativa era quella di assicurarsi al trecento per cento che Bin Laden fosse davvero in quella casa, e poi agire in modo rapido e discreto.
Il guaio è che la casa non si trovava in mezzo al deserto afghano, ma nel cuore di una cittadina molto popolata, tra le altre cose a un chilometro dalla principale accademia militare pakistana. Tutto intorno, case, scuole, negozi, moschee.
E in una location del genere, i classici agenti della CIA – biondi, rasati, con i rayban a specchio, l’auricolare e il cappellino “New York Giants” – tendono a essere leggermente troppo riconoscibili.
E allora, come fare?
Incredibile a dirsi, ma la poderosa macchina bellica americana entrò in crisi.
I satelliti spia non riuscivano a spiare niente, perché il presunto Bin faceva le sue passeggiate al riparo del pergolato.
I droni telecomandati non potevano essere usati con disinvoltura in un’area così densamente popolata.
Gli scanner termici e i microfoni direzionali strafighi non riuscivano a penetrare le spesse mura della casa.
Le donne della presunta famiglia Laden si facevano vedere poco in giro, e sempre ingualdrappate in quei burka integrali con la reticella sugli occhi che renderebbero impossibile distinguere Belen da un qualsiasi apicoltore.
I bambini erano stati addestrati a non spiccicare parola sugli adulti con i quali vivevano, e in ogni caso ad ogni domanda diretta avrebbero potuto insospettirsi.
Gli abitanti della casa non usavano telefoni, internet, cellulari, o altri aggeggi da intercettare. I rifiuti li bruciavano.
La cacca nelle fognature era troppo diluita per provare a estrarci del DNA (bello fare l’agente segreto, eh?).
In pratica, un altro cul-de-sac.
Gli americani dovettero inventarsi cose pazzesche, tipo una campagna sanitaria di vaccinazione di tutti i bambini della zona, con tanto di dottore a domicilio. Ma andò buca anche questa: un falso medico riuscì effettivamente a entrare nel compound (dio come mi piace), ma non riuscì a vedere niente.
I bambini di Abbotabbad, perlomeno, trassero per la prima volta nella storia beneficio dall’intervento americano.
Per farla breve, i servizi segreti più tecnologicamente avanzati del pianeta restarono per mesi con le pive nel sacco. Il paese che ogni anno spende per l’intelligence militare più di quanto servirebbe per sradicare la povertà da ogni angolo del orbe terracqueo non riuscì a scoprire se dentro a quell’edificio dall’altra parte della strada si nascondesse davero il più grande criminale dell’era moderna o soltanto un pastore agorafobico.
Ci deve essere una morale in tutto questo.
Alla fine, la decisione di attaccare venne presa. E venne presa in base all’unico indizio che in tutti quei mesi si riuscì a raccattare. I panni stesi.
Dal numero dei panni stesi ad asciugare, la loro dimensione, e la frequenza con la quale venivano esposti, gli analisti della CIA si lanciarono infatti in congetture sul numero di persone che vivevano nella casa, la loro età, il loro sesso, e la loro altezza. Visto che questo inappuntabile “profilo” combaciava con la possibile composizione della famiglia di Bin Laden, venne deciso che, probabilmente, lo sceicco abitava proprio lì.
Come dire: maglietta della squadra di cui è tifoso, tovaglioli con macchie del sugo di cui è ghiotto, mutandoni che senz’altro gli andrebbero a pennello: per forza abita qui.
Notevole, eh? Come dicevo, ci deve essere una morale. La CIA. I panni stesi. Bucato dal bucato.
Anche gli altri due episodi che vi volevo raccontare, comunque, sono notevoli.
E si verificano proprio in seguito a questa decisione.
Ma fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa.
Ma se vuoi davvero leggere le altre due storie, clicca qui.
Scongelato da Peter L. Bergen, “Manhunt: The ten-year search for Bin Laden, from 9/11 to Abbottabad”, 2012.
Con la partecipazione straordinaria di Umberto Eco, “Il nome della rosa”, 1980 per la citazione della penultima riga.
godibilissimo e anche molto filosofico, probabilmente senza volerlo, ed è la filosofia che riesce meglio… 😉
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Grazie Bortocal!
Hai perfettamente ragione, la mia filosofia è del tutto involontaria. Come lo sono del resto la mia storia, la mia geografia, il mio latino, e la mia fisica. Chissà, magari sono un filosofo… “a mia insaputa”! 😉
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… insomma bastava un’asciugatrice a Bin Laden per sfuggire all’onnipotente CIA?
Cavolo!
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Cara Elisabetta, hai centrato perfettamente il problema. (boom!)
Come mi ha confidato il generale Petreus, che incontro spesso all’Ikea, “se Bin Laden avesse avuto non solo una lavasciuga, ma anche un fornetto del Mulino Bianco, un Bidone Aspiratutto e, soprattutto, un Folletto Vorwerk, la Storia avrebbe preso una piega che non possiamo neanche immaginare”.
E, come ama spesso ripetere l’ambasciatrice dell’UNICEF Annamaria Franzoni: “Mai sottovalutare il potere dei Bimby”!
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Sei fantastico Niarb. Una lettura appassionante e non lo sto dicendo perché mi paghi dieci sacchi a intervento e venti a condivisione.
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Haldeyde, mi fai arrossire come un’educanda di fronte alla Platinum Edition del “The Very Best of Jessica Rizzo”. Mo grazie!
E comunque si era parlato di venti sacchi per cinque condivisioni, trattabili in caso di commento di Umberto Eco, Stefano Benni o Ilary Blasi. Torna al pezzo!
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AAAZZZ… esattamente quello che facevo io a Venezia ai tempi dell’Università…dai panni stesi rilevavo non solo numero, sesso, età, altezza, e forma degli abitanti, ma anche lavoro, reddito, numero telefonico, tessera sanitaria e preferenze sessuali….
Se volevano quelli della CIA potevano anche sputtarnarlo dandogli del sodomita che si fa gli orsetti di peluche…ma invece, PURI&DURI, l’hanno solo fatto fuori, magari mentre era al bagno, impegnato in una umana stitichezza…
Ah Niarb che dispiacere non averlo brevettato noi in tempo il sistema “panni stesi”…eppure te l’avevo detto e ripetuto quella volta che ci vedemmo a una vernice del Guggehneim Museum, ma tu niente…intento a spazzolare tramezzini e vol-au vent…per non parlare del prosecco (eh…lì niente birra è VOLGAVE)…
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Sono MOLTO lieto di non aver fatto l’Università a Venezia. 😉
E poi guarda che ti confondi. Alla vernice del Guggenheim io non ero quello che spazzolava i tramezzini.
Ero quello che reggeva il vassoio.
Anche se, va detto, quando sono al telefono faccio degli scarabocchi interessantissimi…
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Peccato, avresti potuto anticipare la CIA
😉
😉
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Mi accontento del fatto che siano loro a non anticipare me… 🙂
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L’ha ribloggato su Le news di PONTEROSSOe ha commentato:
Una storia da riscrivere o ancora da raccontare ?
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