Negli anni d’oro dell’Economia Farlocca, ogni tanto si facevano degli stress test. Pare che questi test servissero a misurare la robustezza delle banche, per capire meglio come avrebbero reagito in caso di crisi.
Non è affatto facile, oggi, capire come potessero funzionare questi test. Ed è un peccato aver perso questa conoscenza, perché in effetti gli stress test davano dei risultati molto significativi. Ad esempio, tutte le grandi banche americane che intorno al 2008 della vecchia datazione superarono con successo l’esame, quando arrivò la crisi vera furono rigorosamente le prime ad affondare come pompelmi di piombo.
Abbiamo quindi cercato di ricostruire le modalità di conduzione degli stress test, perché nel caso in cui un giorno a qualcuno venisse mai in mente di riscoprire la finanza (speriamo di no, ma non si può mai sapere), vogliamo essere pronti.
Il giorno concordato per lo stress test (perché sì, gli stress test si facevano mettendosi d’accordo prima con i vari istituti, in modo da non stressarli in modo eccessivo), nella banca in esame arrivava un drappello di distinti signori in doppiopetto grigio e occhiali scuri. Questi stressatori, abilmente mescolati al pubblico e agli impiegati, prendevano silenziosamente posto nei punti strategici della banca: in fila allo sportello, accanto alle macchinette del caffé, sotto ai monitor, ai margini degli open space, dietro ai ficus benjamina degli uffici dei dirigenti.
Poi se ne stavano lì, silenziosi e tranquilli, fingendo di leggere il giornale, di compilare moduli o di mandare messaggini con il cellulare. La loro mimetizzazione era perfetta, tradita solo da fugaci sbirciatine ai Rolex d’ordinanza. Soltanto un occhio allenato avrebbe potuto notare un microscopico auricolare, abilmente celato all’interno del padiglione auricolare.
Ed è proprio da questo auricolare che una voce di baritono, all’ora X, scandiva un semplice: “Adesso”.
A quel punto, si scatenava l’inferno.
Gli stressatori abbandonavano contemporaneamente le loro postazioni di attesa, e scattavano tutti insieme nei quattro angoli dell’istituto, strillando come forsennati:
“Maledizione vendere, vendere!
“Va giù Tokyo! Crolla New York!”
“L’oro sprofonda! Mollate il rame!”
“L’euro è andato! Il dollaro è andato!”
“Anche la Cina! Guarda la Cina!”
“Le riserve! Occhio alle riserve!”
“Chiama la Svizzera! Portate dei sacchetti!”
“Uscire dallo yen! Ripeto, uscire dallo yen!”
“Cazzo, vendere! Vendere tutto!”
“Gente, questa volta si va a stracci!”
Un tipico stress test poteva durare dalle 8 alle 24 ore, per cui ogni tanto gli uomini in grigio dovevano darsi il cambio. Quelli più sudati e senza voce venivano silenziosamente fatti uscire dalla banca, e il loro posto veniva preso da seminatori di panico nuovi di zecca, con le batterie ancora cariche. A volte addirittura nel bel mezzo di una frase.
I poveri impiegati della banca, affogati nel panico, probabilmente non si accorgevano nemmeno di queste sostituzioni.
Fuori dalle banche erano di solito parcheggiati dei grossi furgoni anonimi, con al loro interno sofisticati apparati di radioricezione con cui si potevano seguire tutte le fasi del test. I furgoni erano equipaggiati con scorte di tramezzini e di cartucce di cocaina per affrontare gli stress test più lunghi, e spesso con una unità coronarica da campo.
Di norma il test veniva sospeso al terzo infarto, o al quinto tentativo di suicidio. A quel punto gli uomini in grigio ricevevano via radio il messaggio “Basta così”.
Tornati muti, estraevano dal taschino stetoscopi e misuratori di pressione usa e getta, e facevano le loro rilevazioni.
Il valore medio delle pulsazioni del personale, moltiplicato per un coefficiente che teneva conto di diversi altri fattori (episodi di vomito isterico, crisi di panico, numero di documenti compromettenti distrutti, toilette intasate, tentativi di stupro tra colleghi) dava un valore complessivo, il famoso “rating” della banca.
Da qualche parte, solitamente ai bordi delle piscine di grandi ville, panzoni in vestaglia di seta raccoglievano meticolosamente i rating, e li commentavano ingollando pinte di margarita.
Il giorno dopo la banca normalmente riapriva, anche se a volte con piccoli disagi per la clientela, specie se erano stati molti i dipendenti che non avevano retto lo stress test.
I telegiornali commentavano soddisfatti che questo e quell’istituto di credito, nonostante la severità dei protocolli di accertamento, si era dimostrato ampiamente in grado di reggere a qualunque sollecitazione di mercato, e invitavano quindi i telespettatori ad affidargli senza riserva i propri risparmi.
E, in effetti, era proprio così. La banca era sopravvissuta. I muri erano ancora in piedi, gli sportelli erano al loro posto, i metal detector funzionavano, i bancomat erano cortesi come di consueto, i monitor mostravano come sempre la gaia danza dei numerini colorati, e le biro con la catenella erogavano inchiostro senza alcun tentennamento.
Peccato solo per gli impiegati. Per quegli occhiali impercettibilmente storti sul naso, quel nodo della cravatta un po’ allentato, quei denti digrignati, quello strano tremolìo delle mani, quelle unghie tutte rosicchiate, quello sguardo insolitamente vitreo.
E, soprattutto, quella fastidiosa tachicardia che, mondo cane, ventiquattr’ore prima non si era mai fatta sentire.
Nelle foto: opera di un artista di cui non ricordo il nome, fotografata al Lincoln Center di New York. Si accettano suggerimenti!
Le cicche invece provengono dal posacenere all’ingresso dell’Ikea.
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