Se ho fatto bene i miei conti, quando vi arriveranno queste note dovrebbe essersi da poco concluso il festival di Cannes, in cui il semperbono Robert Redford ha presentato il suo ultimo film sulle traversie di un famoso navigatore solitario.
Però tranquilli: non ero a Cannes, non ho visto il film, per cui non vi rovinerò la sorpresa.
E poi, se si parla di navigatori solitari, io ne ho in mente uno e uno soltanto.
Il più matto, il più assurdo, il più improbabile.
Il più comico, il più tenero e il più tragico.
Il più autentico e più straordinario cacciaballe della storia della navigazione.
L’Inghilterra del 1968 era un posto in cui era difficile annoiarsi.
Dalla politica ai movimenti studenteschi al rock alla minigonna: il baricentro del mondo, l’occhio del ciclone, il palcoscenico del secolo breve.
Un posto in cui, potendo, farei immediatamente trasloco.
Ma l’Inghilterra è soprattutto un’isola, e in quanto tale indissolubilmente legata al mare dal doppio filo della necessità e dell’amore.
Ed è per questo che l’immaginario degli inglesi, in quel fantasmagorico 1968, venne colpito in modo particolare da un evento a cui, nel resto del mondo, venne dato minor risalto: la circumnavigazione del globo in solitaria compiuta dal leggendario velista Francis Chichester.
Per un popolo di navigatori, l’impresa di Chichester non rappresentava un semplice traguardo sportivo. Era qualcosa di più: una sorta di trionfo mistico, uno scacco agli dei, un drago millenario sgozzato da un cavaliere solitario. Al ritorno dalla sua Odissea, Chichester venne accolto in patria come il più glorioso degli eroi, fu ricevuto dalla regina e nominato baronetto, ed ebbe l’inusitato privilegio di salutare insieme alla famiglia reale folle in delirio dal balcone di Buckingham Palace.
Donald Crowhurst, ingegnere ed esperto di elettronica, seguiva come tutti gli altri inglesi le celebrazioni alla TV, e non poteva che paragonare silenziosamente la situazione di Chichester alla sua.
Aveva trentacinque anni, una moglie e quattro figli, e una situazione finanziaria semplicemente disastrosa. Era a un passo dalla bancarotta, con casa e azienda ipotecate, creditori inferociti in tutti gli angoli, e la reputazione a brandelli. Se il futuro aveva in serbo per Chichester onore, ricevimenti, celebrazioni e riconoscimenti, per Crowhurst all’orizzonte non c’era altro che miseria, vergogna, e probabilmente anche galera.
Ma in quei giorni successe qualcosa.
Sull’onda dell’impresa di Chichester, il “Sunday Times” decise di alzare l’asticella e sfidò i navigatori di tutto il mondo a migliorare ulteriormente il record appena stabilito.
Chichester, infatti, nei suoi sette mesi e mezzo di regata aveva fatto una tappa in Australia per riparare la barca. “Nessuna tappa” decisero invece al “Sunday Times”. Il prossimo Graal delle imprese impossibili sarebbe stato il giro del mondo a vela, in solitaria, e senza scalo.
La regata venne battezzata Golden Globe Race, e venne messo in palio un gruzzolo assai sostanzioso.
E mentre tutti i sudditi della regina, nonché migliaia di navigatori sparsi intorno al mondo, cominciarono a sognare il nuovo trionfo sul mare e sull’epopea di Chichester, al buon Donald si dipinse sulle pupille il simbolo delle sterline. In men che non si dica, nella sua testa disperata si radicò l’ideona di racimolare soldi e recuperare amor proprio partecipando (e magari vincendo) alla Golden Globe Race.
Ora, vorrei che fosse ben chiaro il livello di assurdità del progetto. Sarebbe come svegliarsi alla mattina dicendo “oggi avrei voglia di vincere le Olimpiadi”. Bello da dire, ma per la maggior parte di noi un filino al di là delle nostre possibilità.
Tanto per cominciare, la Golden Globe Race era considerata la gara più difficile e pericolosa al mondo. Mandare avanti una barca in pieno oceano, da soli, per mesi, è già di per sè una faccenda abbastanza complessa. Ma navigare i mari del sud, doppiare i leggendari Capo Horn e Capo di Buona Speranza, è roba da eroi.
Il mare, da quelle parti, non è come lo specchio d’acqua di fronte al Club Mediterranée dovete avete preso le vostre lezioni.
Assomiglia di più a quello che si trova di fronte il pallino di cotone che vi cavate dall’ombelico e buttate nel water, quando tirate l’acqua: montagne d’acqua, ondate come martelli, vortici mostruosi, vento come raffiche di mitraglia. L’inferno liquido.
E Crowhurst era nient’altro che un velista della domenica: non aveva la minima esperienza di navigazione oceanica, e come gli eventi successivi dimostrarono, non aveva neanche la stoffa mentale del vero lupo di mare.
Il mondo invece pullula di velisti straordinari, e quelli che si iscrissero alla Golden Globe Race erano i migliori, autentiche leggende viventi: il grande navigatore solitario Bernard Moitessier, l’ufficiale di marina Robin Knox-Johnston, il capitano di corvetta Nigel Tetley, e altri cinque.
Possiamo immaginare Crowhurst che annuncia la sua idea alla moglie, e lei che risponde “Sì Donald, bravo. Adesso però vai a segar l’erba in giardino, poi vieni che mi aggiusti il frullino, che si incanta”.
Ma Crowhurst aveva disperatamente bisogno di soldi e di credibilità, per cui cominciò a raccontare in giro che avrebbe partecipato anche lui. Spiattellò ai quattro venti che avrebbe vinto la regata grazie a una imbarcazione rivoluzionaria di sua invenzione, dotata di dispositivi impensabili a quell’epoca, tra i quali un dispositivo antiribaltamento controllato da un computer. Era il 1968, ricordiamolo, e dire “computer” allora è un po’ come dire “antigravità” oggi.
L’idea di Crowhurst era che, vittoria o non vittoria, il mondo avrebbe riconosciuto la grandezza della sua impresa, lo avrebbe coperto di onori, e magari avrebbe fatto la fila per acquistare i suoi straordinari piccipocci elettronici di ausilio alla navigazione. Sarebbe diventato ricco e rispettato.
In men che non si dica, organizzò un circo mediatico con i controfiocchi per lanciare la sua impresa.
Come concorrente, Crowhurst era talmente improbabile che divenne immediatamente il beniamino di milioni di inglesi, che in lui vedevano il riscatto dello sfigato contro i superuomini.
Senza troppe difficoltà riuscì quindi a trovare gli sponsor, che gli prestarono i soldi necessari per costruire la barca a patto però che completasse la gara. Se si fosse ritirato, avrebbe dovuto restituire tutto fino all’ultima sterlina.
Nel frattempo, gli altri concorrenti alla regata avevano già preso il mare. La Golden Globe prevedeva un premio per il primo concorrente a completare il giro, e un premio per quello che ci avrebbe messo meno tempo. Non c’era quindi una data obbligatoria per la partenza, ma solo una data limite. Crowhurst, ovviamente, era in gara per il secondo obiettivo.
Visto che gli altri erano già partiti, tutti gli occhi del Regno Unito si concentrarono sulle ultime settimane di preparazione di Crowhurst, che avvennero quindi in forma pubblica. E assunsero fin da subito connotati fantozziani.
Il suo trimarano (imbarcazione veloce ma difficile da gestire) venne costruito in modo rocambolesco. Alla prima uscita Crowhurst cadde in acqua più volte, e la barca vibrava talmente che i bulloni si allentavano. Ma Donald assicurò che avrebbe fatto dei miglioramenti in corso di navigazione.
Nella foga dei preparativi, dimenticò svariate parti di ricambio e delle provviste, e si lasciò spesso sfuggire che la barca non era affatto pronta. Poi, però, appena si accorgeva di essere sotto l’occhio delle telecamere, trasformava la sua espressione preoccupata in quello che Fabrizio De André avrebbe definito “una specie di sorriso”, e faceva il gesto di “occhei”.
I presagi per una catastrofe in grande stile, insomma, c’erano davvero tutti.
E se credete a questo tipo di cose, il giorno del varo la signora Crowhurst, come la contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare, lanciò la bottiglia di spumante contro la carena della Teignmouth Electron, il trimarano del marito, e questa rimbalzò senza rompersi. Per ben due volte. Fino a che qualche anima generosa la spaccò con la forza.
Presagi, appunto.
Ora, c’è una cosa che non vi ho detto. Tutta questa storia non la si ricava soltanto da libri, articoli e memorie orali. C’è uno splendido documentario, “Deep Water“, che ha cucito insieme tutte le interviste e i servizi dei cinegiornali dell’epoca, per restituirci uno straordinario racconto in presa diretta.
C’è Crowhurst in famiglia, che fa ciao ciao insieme ai suoi bimbi. C’è la moglie con l’aria frastornata, che dice di credere ancora che sia tutto uno scherzo. Ci sono le prime uscite in mare, con Crowhurst in giacca e cravatta che si muove a bordo con la stessa grazia che potrebbe avere Arnold Schwarzenegger nel corpo di ballo del Bolscioi. E, soprattutto, c’è la registrazione audiovisiva di tutta la seconda parte. Quella che sto per raccontare.
E’ un documentario talmente eccezionale che viene trasmesso con cadenza non più che decennale e solo sui canali più reconditi del decoder, di solito a ore oscene e in serate rigorosamente infrasettimanali. Ma cercatelo: ne stravale la pena.
(A proposito: se vi va bene in inglese, eccolo qua.)
Il 31 ottobre 1968, ultimo giorno utile per unirsi alla gara, Crowhurst si presentò trionfalmente alla partenza in perfetta tenuta da marinaio (secondo lui): pullover, camicia e cravatta. Un abbigliamento abbastanza inconsueto per un navigatore solitario, ma a suo giudizio ottimo per scopi di marketing.
Ma le scene più incredibili riguardano la partenza. Le ultime parole con la famiglia, i saluti. L’espressione attonita della moglie, che capisce lucidamente che sta accompagnando il suo uomo al patibolo. Lo sguardo di Crowhurst, che sembra uno che sta per tuffarsi nella vasca degli squali, ma di sua spontanea volontà. Le facce dei bambini, che si divertono ma che percepiscono qualcosa di stonato in quell’atmosfera di festa. La folla osannante, che lo incita con la stessa avidità di quella che, duemila anni prima, salutava i gladiatori che scendevano nell’arena. La moglie che scuote la testa, mentre le si legge chiaramente negli occhi: “Una boiata. Stai facendo una gigantesca boiata”.
Scene di grandissimo cinema. E per forza: è tutta roba vera.
Alla fine, il buon Donald saluta il folto pubblico, e con piglio da trionfatore scioglie gli ormeggi, e salpa.
Ancora in porto, non riesce a issare le vele, e devono trainarlo a riva. Risalpa qualche ora dopo.
E qui comincia la seconda parte della storia. Quella davvero pazzesca.
Che però ora non vi racconto, perché il mio sadismo è materia di leggenda.
Vi lascio con l’immagine di Donald, finalmente, in mare.
Per sapere come va a finire, fate un bel respiro, e poi cliccate l’iconcina qui a fianco.
Ispirato da “Deep Water”, 2006, e da “I terribili segreti di Maxwell Sim” di Jonathan Coe, 2010..
Ok aspetto domani.
Mi spieghi perchè il post precedente la mia casella di posta la sputato come spam?
bah…
ciao ciao
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Ma… come, spam?? Nel senso di carne in scatola?
Fammi sapere se lo fa ancora, che vado su a Echelon e pianto un casino epocale!
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i velisti sono strambi, ma alcuni di loro sono moolto più strambi..
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Lo interpreto come un velato suggerimento a prendere anch’io lezioni di vela… 😉
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