Vi raccontavo l’altro giorno della fenomenale miniera di storie racchiuse nei dieci anni di caccia all’uomo a cui Bin Laden costrinse i servizi segreti americani. Vi ho raccontato dei mesi in cui i più acuti osservatori della CIA e del Pentagono cercarono in tutti i modi di capire se in quella casupola nei quartieri residenziali di Abbotabad, in Pakistan, si nascondesse davvero lo sceicco del terrore. Vi ho raccontato dei dubbi, e del lacerante dilemma: attaccare, o continuare a cercare?
In ogni caso, ben prima che il nemico pubblico numero uno dello zio Sam si tradisse a causa dei mutandoni stesi ad asciugare, in America ci si preparava all’azione.
Agire
Ora, l’immagine che ho io per “prepararsi all’azione” è quella di un branco di marines in anfibi e canottiera radunati intorno a un sergente incazzereccio tipo quello che sbraitava “Solo due cose vengono dall’Arizona: tori e checche“. Il sergente traccia alcuni segni nervosi su una lavagnetta come un allenatore di basket, e i giandoni annuiscono in silenzio.
Oppure, visto che l’esercito americano è il meglio organizzato del mondo, potrei immaginare un generale con la faccia di Bruno Vespa di fronte a un plastico del presunto rifugio, che indica con la bacchetta “La squadra uno attaccherà di qua, mentre la squadra due irromperà dal retro, qui”.
Niente di tutto questo. Gli americani, quanto a preparativi, non scherzano.
A migliaia di chilometri dal Pakistan e dall’Afghanistan, in una base segreta tra le foreste del North Carolina, i vertici del Pentagono fecero costruire una copia esatta in scala 1:1 dell’edificio di Abbotabad, in modo che il team di assalto potesse esercitarsi con il massimo del realismo.
E allora immagino il ripetersi all’infinito della stessa conversazione, in sala mensa, mattina dopo mattina:
“Hallo Joe, com’è andata oggi?”
“Bene Jim. Abbiamo attaccato il dannato compound e abbiamo fatto saltare il culo di quel porco terrorista.”
“Ben fatto, Joe. E che farete nel pomeriggio?”
“Attaccheremo il dannato compound e faremo saltare il culo di quel porco terrorista.”
“Ottimo. Vieni in città con noi, stasera?”
“Non posso. Devo attaccare il dannato compound e far saltare il culo di quel porco terrorista.”
E così via, per mesi.
Dopo centinaia di test diurni nel North Carolina, il team si spostò nel deserto del Nevada, per provare anche di notte e con clima caldo a far saltare il culo di quel porco terrorista.
Immagino la frustrazione del falegname della base, costretto tutti i giorni a rimettere su i cardini e a sostituire le porte sfondate nelle irruzioni. E i piloti degli elicotteri, a farsi venire l’orchite da stress a furia di ripetere per settimane la stessa manfrina – imbarca i soldati, sbarca i soldati – monotona come la routine di un autista d’autobus – con la differenza che ogni tanto sugli autobus sale una gnoccona in minigonna.
Apro una parentesi: volete per caso costruirvi anche voi il vostro compound? Un’idea fantastica per sorprendere gli amici.
Nel caso vi interessi, ecco a lato i disegni. Se non riuscite a leggere tutte le quote, potete scrivere a info@whitehouse.gov. Saranno lieti di venire in vostro aiuto.
Tornando alla nostra storia, dopo settimane di un simile addestramento i soldati non avevano più nemmeno bisogno di usare i visori notturni, perché avrebbero potuto espugnare con perfetta sincronia il dannato compound anche bendati e con dei calzini infilati nelle orecchie.
Poi, io dico “soldati”, ma quelli non erano mica soldati. Quelli erano SEAL, un manipolo di assatanati che in confronto i normali marines sono pastorelle.
Beh, finalmente il gran giorno arrivò. A Washington l’ennesimo lancio della monetina decise di mettere una croce sulla testa di Bin Laden. Per l’occasione vennero messi a disposizione della squadra d’assalto un paio di elicotteri fantascientifici, veloci come missili, invisibili ai radar e ultrasilenziosi, il costo di ciascuno dei quali equivale al totale delle spese alimentari sostenute da tutti i paesi africani dai tempi della caduta dell’impero romano a oggi.
La missione venne pianificata nei minimi dettagli, prendendo in considerazione tutti i possibili (e impossibili) imprevisti, da un’improvvisa nevicata nel deserto allo sbarco di enormi meduse senzienti provenienti dalle parti di Betelgeuse.
Tutte gli scenari, si badi bene, erano studiati con in mente il famoso criterio della “plausible deniability“, cioè della negazione plausibile: visto che un raid sul territorio di un altro stato sovrano è decisamente al di fuori dei canoni di accettabilità di qualunque trattato internazionale (specie se il suddetto stato sovrano non ne è stato nemmeno informato), in caso qualcosa fosse andato storto il governo americano avrebbe dovuto essere in grado di poter sostenere di non saperne niente. Un raid “a nostra insaputa”, insomma: sarebbe piaciuto tantissmo anche a qualche nostro pippardone politico.
Alla Casa Bianca il presidente Obama, Hillary Clinton e alcuni altri altissimi papaveri si radunarono in gran segreto per assistere in diretta alle immagini trasmesse dalle videocamere di un drone ronzante in zona, ben equipaggiati di birra, popcorn e tutto l’armamentario classico.
Dopo aver sorvolato a bassa quota e a folle velocità il territorio pakistano per un’ora e sblisga, la missione vera e propria ebbe inizio.
E – occorre dirlo? – inizò immediatamente con una cappella.
Gli americani hanno da sempre un rapporto complicato con gli elicotteri. Anche se possiedono gli esemplari più terribili e sofisticati del mondo, pare non riescano proprio a coesisterci serenamente. Gli cascano, gli esplodono, li scontrano, se li fanno colpire. Nelle due guerre del Golfo, come nell’invasione dell’Afghanistan, ci sono stati momenti in cui gli incidenti in elicottero hanno fatto più vittime della contraerei nemica. Per non parlare del famoso abbattimento del Black Hawk a Mogadiscio nel 1993, che provocò l’uscita di scena degli USA dalla Somalia tra i fischi degli spalti.
Beh, ad Abbotabad la figuraccia si ripetè.
I due fantaelicotteri piombarono come falchi nella notte senza luna sulla casa di Bin Laden, pronti a mettere in atto la scena provata un milione di volte. Un elicottero avrebbe dovuto atterrare nel giardino dell’edificio e l’altro sulla strada. I SEAL sbarcati dal primo avrebbero aperto le porte al secondo team, e insieme avrebbero spazzolato allegramente i tre piani dell’edificio. Gli elicotteri sarebbero filati via per non dare nell’occhio, e sarebbero tornati solo a missione compiuta, per riportare a casa gli incursori, auspicabilmente senza attirare l’attenzione.
Il primo elicottero si accinse quindi a ripetere la manovra provata innumerevoli volte, l’atterraggio rapido e silenzioso. Sfortunatamente, il muro di cinta della casa di Bin Laden era più spesso di quello della replica utilizzata negli Stati Uniti. E questo, a quanto pare, provocò una leggera corrente ascensionale sufficiente per far perdere stabilità all’elicottero, che di conseguenza sbandò, e urtò il muro. Il rotore di coda si ruppe, e il pilota fu costretto a piantare il muso del velivolo a terra, per evitare che si mettesse a girare come una trottola impazzita. Il rumore dello schianto buttò già dal letto mezzo Pakistan.
Ti saluto effetto sorpresa.
Nella stanza segreta della Casa Bianca venne pronunciata la parola “shit!” più volte di quanto non accada normalmente in un intero weekend a Harlem.
E anche qui mi viene il sospetto che, sotto sotto, ci sia una morale.
Per il resto, il raid andò come previsto. Un sacco di morti ammazzati e di bambini in lacrime, le solite cose. Era il 1 maggio del 2011.
In ogni caso, se la storia della fantozzata elicotteristica non vi convince del tutto, ho trovato per voi alcune foto eccezionali: la casa che ospitava Bin Laden sullo sfondo, i pezzi dell’elicottero, e alcuni bambini che ci giocano.
Per la cronaca, inutile che programmiate le prossime vacanze ad Abbotabad, per constatare di persona. Proprio per evitare ideone del genere, il compund è stato abbattuto nel febbraio 2012.
Ma sono certo che gli amanti dell’architettura sapranno farsene una ragione.
Misurare
E proprio il raid nella tana di Bin Laden mi dà lo spunto per la terza storia. Che ha luogo all’incirca quindici minuti dopo lo schianto dell’elicottero.
Perché un quarto d’ora è tutto il tempo che è servito ai ventitre uomini del commando (più un cane) per far fuori quattro uomini, una donna, ferire le due donne rimanenti, ammanettare quattordici bambini, arrivare al cospetto di Bin Laden, e farlo diventare il sesto cadavere della serata.
Il problema è che lo sceicco venne sollevato dalle pene terrene con una sventagliata di mitra al petto e una in faccia, e questo pose un non piccolo problema di riconoscimento.
Era davvero Bin Laden, l’alto uomo barbuto di mezza età che si era rintanato al terzo piano?
Gli uomini del commando non avevano tutto questo tempo per star lì a filosofeggiare, né la possibilità di fare un test del DNA al volo. Dovevano pensare a fare incetta di tutto il materiale sospetto (scritti, hard disk, CD, chiavette USB), distruggere l’elicottero schiantato nel cortile, e sloggiare velocemente, prime che le forze armate pakistante avessero il tempo di passare dal pigiama alla mimetica.
Una volta tornati a Jalalabad, la base da cui poco più di tre ore prima era partito il raid, i SEAL stesero il corpo del presunto Bin Laden su un tavolo, e lo osservarono con più attenzione. Il comandante in capo, ammiraglio McRaven, conosceva l’altezza precisa di Bin Laden, ma sfortunatamente nessuno alla base aveva un metro. Allora cercarono un soldato più o meno di quell’altezza, e lo fecero sdraiare accanto al cadavere.
Okay, stessa altezza, è Bin Laden.
Qualche ora più tardi, il presidente Obama disse a Mc Raven quello che, forse, in questo momento sta ronzando in testa a qualcuno di voi: “Ammiraglio, mi sta dicendo che ha perso un elicottero da sessanta milioni di dollari, ma le manca un metro da un dollaro e 99?“.
Quattro giorni più tardi, McRaven entrò nello Studio Ovale della Casa Bianca, e Barack Obama gli consegnò ufficialmente un metro a nastro montato su una placca commemorativa.
Il corpo di Bin Laden (dicitur) giaceva già da qualche parte sul fondo del mare d’Arabia.
Ora, hanno una morale comune queste tre storie? Ci insegnano qualcosa? Ci renderà migliori il conoscerle?
Che sia dannato se lo so.
Di certo, sarebbe stato un peccato non raccontarle.
Scongelato da Peter L. Bergen, “Manhunt: The ten-year search for Bin Laden, from 9/11 to Abbottabad”, 2012.
Le fotografie sono tratte rispettivamente da ilpost.it, hereandnow.wbur.org, e guardian.co.uk. Sia gloria ad essi.
Tanto perché lo sappiate, Peter Bergen è un giornalista atipico, uno di quelli che sul posto che raccontano ci vanno davvero.
Insieme a Peter Arnett, la superstar della CNN, ha fatto parte della prima troupe televisiva che è riuscita a intervistare Osama Bin Laden nel 1997, in una capanna fangosa nei dintorni di Jalalabad, nel cuore dell’Afghanistan.
Il video lo trovate qui sotto. E anche qui, in effetti, ci sarebbe una storia da raccontare.
Ma non provocatemi.
Ho sonno, ho avuto una giornata di merda lavorativamente parlando e quindi non sono dell’umore adatto per esprimermi al meglio. Provo a dirti solo che sei veramente, ma dico veramente bravo. E’ talmente un piacere leggerti che avrei voglia di spaccarti la faccia per non avere io la metà del tuo talento nel raccontare. Maledetto.
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Massì. Pensa che io ti prenderei a martellate sui malleoli per il tuo straordinario talento grafico e umoristico. Saremmo davvero una bella coppia… 🙂
P.S. Smack!
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E io che volevo ammirare il compound…architettonicamente parlando…
che tristezza
che dolore…
oggi mi rendi triste una giornata triste…quasi quasi mi ascolto un po’ di samba di Gil Gilberto…
😉
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Se posso consigliare, meglio un tango argentino…
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Habemus Pampas
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Ave Belen gratia plena!
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questo posto è pieno di svitati…
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Naturalmente.
E’ il minimo. Visto che sono io il padrone di casa…
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Te pensa che il raid di teheran che costò la presidenza a Jimmy Carter fallì per un’avaria agli elicotteri con i soldati a bordo per liberare l’ambasciata.
Fossi il presidente americano (sai che culo???? mi divertirei un casino) per prima cosa farei rottamare tutti gli elicotteri.
Poi si ragiona.
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HA! Fantastico, Mr. Incredible, questa mi era proprio sfuggita!
Allora è vero, c’è sotto qualcosa di genetico. Sarà ‘sta cosa delle pale che girano, che li mette un po’ a soqquadro. Con i jet non succede.
Comunque, se tu fossi il presidente americano, ma io fossi il presidente della AgustaWestland, ti verrei a cercare alla casa (bianca) con delle polpette intinte nel Guttalax… 🙂
Grazie del contributo, resta in contatto!
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Affare fatto.
T aspetto in Pennsylvania Ave.
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Perfetto. Servono cravatta, occhiali scuri, passaporto guatemalteco?
Non dimenticherò i fiori per la first lady, e una tanica di greggio appena spillato.
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Io la storia di Bin Laden l’ho seguita così e così. Aspetto che esca il nuovo film: “Batman contro Bin Laden”.
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L’hanno seguita in tanti così e così. In Italia, per forza: non ce l’hanno mai raccontata. In compenso, sappiamo tutto su Zio Michele e sul compound di Cogne.
Comunque anche negli Iuessei, dove si chiacchera molto di più, qualche abbaglione lo hanno preso anche lì.
Se mastichi inglese, ti suggerisco un articolo del The Daily Beast in cui chiedono a dei veri agenti della CIA che hanno partecipato alla partitona a nascondino cosa pensano dei due film Manhunt e Zero Dark Thirty.
L’articolo è Three CIA Agents Who Hunted bin Laden Tell All.
E’ breve ma molto interessante, e la sintesi (molto sintetica) è:
“Si sono presi un bel po’ di licenze poetiche, in quei film. Molto ma molto più realistica la pellicola di Batman suggerita da mister Albini. Dobbiamo cercarlo, anche lui: quel tipo sembra sapere troppo…”
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