Le sorprese hanno di bello che sorprendono.
Siete sorpresi da tanto acume?
Sorprendentemente, immagino di no. Ma intanto sono riuscito a infilare la parola “sorpresa” ben cinque volte in tre righe, ed era qui che volevo arrivare.
Perché oggi ho scavato fuori dal ghiaccio un reperto particolarmente (dài che lo sapete) sorprendente. Sorprendente (e sono sette!) perché parla di una cosa che francamente credevo un po’ in disarmo, e da cui non mi sarei più aspettato particolari sorprese: la democrazia.
E invece.
Si tratta di un’intervista rilasciata dal grande Joseph Stiglitz al canale americano MSNBC nella calda primavera del 2012, in occasione della sua incredibile partecipazione ad una “street conference” organizzata dal movimento “Occupy Wall Street”, nei primi giorni dell’omonima protesta.
Joseph E. Stiglitz, per chi non lo sapesse, è Premio Nobel per l’economia, ex-Vice Presidente ed Economista Capo della Banca Mondiale, due volte consigliere economico dell’amministrazione Clinton, professore di economia alle università di Stanford, Yale, Princeton, Oxford e Columbia, e campione del mondo di pattinaggio acrobatico (l’ultima me la sono inventata, ma ci starebbe).
Capite bene che la partecipazione di un economista di fama mondiale a una roba che si chiama “Occupiamo Wall Street” non ha niente di scontato. Segno probabilmente che quando qualcuno tenta di dipingere quel movimento come un branco di punkkabestia impazziti, vi sta tenendo nascosto qualcosa.
L’intervista è tratta da un programma che si chiama “The Last Word”, frase che colgo come auspicio della fine del predominio Microsoft nel campo dei word processor. Ma sto divagando.
E’ un’intervista breve (appena sei minuti e mezzo) ma straordinariamente interessante.
Lo so, è in inglese, ma essendo una pasta d’uomo presto pubblicherò una sua traduzione completa. Gli applausi a dopo.
Oggi volevo concentrarmi su una frase, che mi ha colpito in modo particolare:
E tutto questo abbiamo dovuto farlo in questo modo davvero peculiare: [i partecipanti] erano costretti a ripetere tutto quello che dicevo a quelli vicini, poi spostarsi e ripeterlo ad altri gruppi. Questo non è il modo in cui altri Paesi permettono ai partecipanti ad una manifestazione di comunicare gli uni con gli altri.”
Interessante, no? Un atto apparentemente banale, un piccolo divieto da parte dell’autorità, di fatto rende impraticabile uno dei diritti più sacrosanti della democrazia: il diritto di libera espressione.
E, badate bene, con una certa classe: NON vietando la manifestazione, ci mancherebbe, ma semplicemente proibendo l’uso di microfoni e altoparlanti.
Ero lì lì per scandalizzarmi, quando mi è capitato per le mani un altro reperto. Un libro, questa volta. “Occupy Wall Street”, il manifesto del movimento che ha cominciato a scuotere il mondo occidentale a partire, appunto, dal 2011.
“Occupy Wall Street” è uno zibaldone di testimonianze senza un ordine particolare, come del resto l’omonimo movimento. Mille voci, ognuna con una sua storia, ognuna con le sue rimostranze, ognuna con il suo carico di speranze per il futuro.
Un movimento che forse non ha le idee tanto chiare su cosa bisogna fare, ma che le ha chiarissime su cosa si è inceppato nei meccanismi del mondo contemporaneo.
(E questa tra l’alto mi sembra un’eccellente sintesi anche di quello che frulla nella mia testa, e che da bravo incontinente riverso pari pari in Afterfindus: sono un fenomeno a fare diagnosi, ma ho la mia bella dose di dubbi se devo azzardare una prognosi.)
In uno dei primi capitoli del libro, si racconta la difficoltà di gestire un movimento così massiccio e così eterogeneo, senza un vertice, senza un’organizzazione centrale, senza nemmeno spazi comuni in cui incontrarsi. Si racconta della difficoltà di far funzionare comizi con oratori improvvisati, di far votare delle assemblee in cui è tutto un viavai di gente, di costruire un’agenda in modo democratico, senza poter contare sul supporto di un qualsivoglia servizio d’ordine, o di strumenti tradizionali.
Riporto di seguito uno stralcio particolarmente significativo:
Fantastico, no? Onde concentriche di pensiero che si diffondono ordinatamente attraverso una folla oceanica. A questo punto poco importa che i megafoni fossero stati proibiti o si fossero semplicemente rivelati inefficienti di fronte a un’audience di quelle dimensioni. L’effetto deve essere stato comunque spettacolare.
Ma c’è un’altra forma di democrazia partecipativa molto interessante descritta nelle pagine di “Occupy Wall Street”. Anche questa, dettata dalla necessità. E resa possibile da un livello di maturità e di civiltà individuale che dovrebbe farci riflettere.
Dopo i primi giorni di protesta, infatti, è emersa la necessità di convocare un’Assemblea Generale per votare alcune linee di azione comuni. Facile immaginare il macello: centinaia di migliaia di persone, niente palchi da stadio (niente stadi, se è per questo), niente urne, niente scrutatori. Un’ammucchiata umana al cui confronto il concertone di Woodstock sarebbe sembrato una festa di compleanno da MacDonald’s.
L’assemblea si è tenuta, ovviamente, all’aperto. Nonostante i vari tentativi di sgombero da parte della polizia, la marea umana, avvertita dal tam-tam dei passaparola, si è data appuntamento a Zuccotti Park, nel cuore di Manhattan.
All’Assemblea Generale hanno partecipato persone di ogni genere: anziani e ragazzi, fricchettoni e yuppie, imprenditori e casalinghe. Molti con bambini al seguito. Alcuni erano di New York, altri venivano da ogni dove, America e non solo, e avevano già passato alcune notti nella tendopoli improvvisata nel parco.
In una situazione del genere, come gestire i processi democratici tradizionali? Come decidere l’ordine degli oratori, i tempi degli interventi, e soprattutto come orchestrare il dibattito?
Ancora una volta, una soluzione incredibilmente semplice. E anche perfettamente funzionante, ma solo se applicata nell’ambito di una società civile.
In questo caso, è stato scelto di applicare l’antico “linguaggio americano dei segni”, opportunamente modificato per le esigenze dell’assemblea. Al pubblico è stato spiegato che, per comunicare con altri partecipanti o con i facilitatori dell’evento, avrebbero dovuto usare soltanto le mani:
- Alzare la mano con le dita che ondeggiano, gesto detto twinkling, per applaudire, o per chiedere “Siete contenti? Vi piace quello che sta succedendo?”. Una specie di sondaggio della “temperatura” della folla.
- Ondeggiare le dita tendendole dritte per dire “Sono neutrale, non mi pronuncio”.
- Ondeggiarle tenendole puntate verso il basso per dire “Non mi piace, non sono d’accordo, è una cosa che non sento”. Gridare senza gridare.
- Incrociare le braccia sul petto per segnalare un’obiezione forte, cercando di farne il minore uso possibile.
- Formare un triangolo con i pollici e con gli indici per segnalare “Attenzione, si è verificata una trasgressione delle regole”, per esempio se qualcuno aveva parlato quando non toccava a lui o era andato fuori tema.
- Una mano alzata con l’indice esteso per dire “Ho da dire qualcosa di rilevante a proposito di questo argomento”.
- Una mano piegata a “C” per dire “Aiuto, non ci sto capendo più un tubo, lasciatemi fare una domanda o mi scoppia la testa”.
- E poi, naturalmente, il segno di “stringi”, che è quello che facciamo anche noi per dire “L’hai tirata troppo per le lunghe, pedro, vieni al punto”.
Non è incredibile? Un oceano di persone in frenetico dibattito, ma in silenzio. Un immenso prato di dita sventolate, e non solo a muover l’aria.
I segnali con le mani hanno effettivamente consentito alla folla di comunicare “in massa”, al proprio interno e con i facilitatori.
Nelle parole di una attivista:
Per noi italioti, abituati al tradizionale mercato del pesce televisivo, dove ha più ragione chi ha più decibel, sembra di parlare di semiotica cinese.
Noi che viviamo nel paradiso delle scimmie urlatrici, noi che misuriamo lo spessore politico degli aspiranti al soglio in base al diametro delle loro corde vocali, noi che se Pavarotti avesse pensato di mettersi in politica oggi avremmo il suo ritratto appeso nelle scuole e negli uffici pubblici, noi che ormai siamo rassegnati alla cacofonia e all’insulto, e alla sconcertante assenza di contenuti, eccoci stupefatti.
Migliaia di persone possono effettivamente parlarsi, discutere, dibattere, decidere, e cambiare il corso della propria esistenza. Possono opporsi a quello che non gli piace, e lavorare costruttivamente per cambiarlo.
Oltretutto, senza sprofondare all’umiliante livello degli insulti, della violenza verbale, della prevaricazione, e del trionfo del caos.
Non serve chissà quale rivoluzione, per arrivarci. Non serve chissà quale costosissimo macchinario.
Ma, come diceva la filosofa Aretha Franklin, “just a little bit of respect”.
E, naturalmente, di intelligenza.
Ispirato da “Occupy Wall Street: chi siamo, cosa vogliamo, come faremo”. Autori vari, 2012.
Aha! Primo a commentarti. Bello, Niarb. Un po’ troppo colto per me che dileggio esclusivamente di argomenti molto più organici. Se hai tempo e voglia di consigliarmi qualche testo “for dummies” sul tema te ne sarò grato.
L’idea di comunicare temifondamentali stando principalmente in silenzio mi ha affascinato moltissimo. Io, italiota condannato a non vedere più un talk show perché non sopporto più fisicamente la gente che litiga.
Complimenti ancora per il tuo blog
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Grazie, caro! In realtà tutti i testi che leggo io sono “for dummies”, perché diversamente non riuscirei a capirli.
Intendiamoci: ho anche dei libri “tosti”. Ma di quelli guardo solo le figure… 😉
Ad ogni buon conto, qui trovi l’elenco dei libri di cui tratto nel sito. A parte il primo, tutti accessibilissimi. Su argomenti più specifici, invece, ti posso consigliare tutto quello che vuoi.
(Per esempio, mi sono letto tre libri di Stiglitz, uno più bello dell’altro. Col tempo, ne parlerò.)
Ma essere stato il primo a commentare ti vale senz’altro un premio. Ad esempio un pacchetto di foto d’epoca, accompagnate da luppolo fermentato, da consumarsi rigorosamente vis-à-vis. Grazie dei complimenti! 😉
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La traduzione! Per favore, la traduzione!!
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Sì, aspettiamo la traduzione, grazie!
E buon anno!
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E traduzione sia. Qui.
Comodo, eh? 🙂
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