Non so perchè nel futuro hanno chiamato questi anni “l’età del PIN”.
So solo che questa mattina mi sono svegliato di soprassalto perché non ho sentito la sveglia. Uso il telefono cellulare come sveglia, e oggi maledizione è lì che mi guarda dal comodino, sornione. E spento.
Lo accendo, inserisco il codice di sblocco (quattro cifre), e mi rendo conto di quanto sia tragicamente tardi. Purtroppo ‘stamattina ho un appuntamento fondamentale in ufficio, e se me la gioco male potrebbero esserci serie ripercussioni sul mio futuro professionale. Devo volare.
Mi precipito in strada e salgo in macchina. Giro la chiave, ma il motore non parte. Sul display appare la scritta “Chiave non riconosciuta, inserire il codice di sicurezza”.
Non lo so a memoria, il codice di sicurezza. Anzi, non sapevo nemmeno che ci fosse, un codice di sicurezza, e di certo non ho idea di dove posso averlo infilato, se mai me lo hanno dato: tra i documenti della macchina, nelle carte di casa, nella posta.
Ma non ho tempo per cercare: corro alla fermata dell’autobus sperando di essere ancora in tempo per prendere la circonvallazione veloce.
Arrivato là con la lingua a pendolo, mi rendo conto di non avere il biglietto. Per fortuna c’è una tabaccheria a due passi, ma il guaio è che non solo non ho il biglietto, non ho nemmeno contante con cui pagarlo (e chi lo usa più, il contante?). Una corsa al bancomat, inserisco la tessera, e mi viene chiesto il codice. Cinque cifre.
Sull’autobus ho tempo di tirare il fiato. Accendo lo smartphone di lavoro (codice di sblocco: quattro caratteri), controllo la posta elettronica privata (password di accesso: otto caratteri), le quotazioni di quei pochi titoli in cui ho investito i miei risparmi (dodici caratteri di nome utente, otto caratteri per la password, più codice segreto di sei cifre), e scopro di essermi giocato, nel sonno, metà dello stipendio del mese precedente. E grazie borsa di Honk Hong.
Finalmente arrivo in ufficio, inserisco il codice di apertura del portone (quattro cifre), e mi fiondo alla scrivania. Il sibilo lacerante di una sirena parte all’improvviso e mi trapana il cervello, da timpano a timpano: ho scordato di disinserire l’allarme. Un codice di appena cinque cifre.
Dopo aver tranquillizzato i Carabinieri e l’amministratore del palazzo, posso finalmente accendere il computer (password di dieci caratteri che ho dovuto cambiare due giorni fa, e che ancora non riesco a ricordare), aprire la posta elettronica di lavoro (sei caratteri per lo username e sei per la password), e cominciare a lavorare. Ovviamente, prima, devo entrare in rete: otto caratteri e passa la paura.
Nel corso della mattinata entro per motivi professionali in dieci siti web diversi che mi richiedono i dati di registrazione: user name (in media sette caratteri) e password (in media cinque caratteri).
Entro anche nel sito per le prenotazioni di visite sanitarie (codice fiscale, sedici caratteri, più codice identificativo personale, nove cifre), nuovamente nel sito della banca per fare un bonifico (codice IBAN: ventisette caratteri, il record), acquisto due biglietti per uno spettacolo teatrale (sei più sei cifre per identificarmi, più i dati della carta di credito: sedici cifre il numero, quattro la data di scadenza, tre il codice di controllo).
Dopo la riunione, prenoto un biglietto aereo (otto più otto caratteri, più i soliti ventitrè della carta di credito) e ricarico il cellulare (nove caratteri lo username, sette la password, e yes, i ventitre della carta di credito, ma non quella di lavoro, quella personale).
I dati su cui devo lavorare nel pomeriggio sono particolarmente importanti e delicati, per cui ovviamente non li tengo sul computer così, come se niente fosse. Ovviamente li ho salvati su una partizione protetta, criptata con un algoritmo di sicurezza di quattordici caratteri, che qua e là assomiglia pericolosamente all’IBAN, per cui spesso mi sbaglio, e devo ri-digitare daccapo.
Nell’arco della giornata di lavoro, calcolo, mi viene richiesto di inserire circa un paio di migliaia di caratteri, rigorosamente alfanumerici, comprensivi di numeri e lettere, e con distinzione tra minuscole e maiuscole. In alcune occasioni, al terzo tentativo sbagliato vengo penalizzato con metodi di crescente crudeltà (dalla richiesta di un codice aggiuntivo all’espulsione dal sito al fagocitamento del bancomat al congelamento del conto alla segnalazione alle autorità), mentre in altri mi si lascia tranquillamente tentare tutte le permutazioni possibili delle password dimenticate, in attesa dell’illuminazione.
A sera sono distrutto. Ho bisogno di un’oretta di palestra per rilassarmi. Per fortuna tengo in ufficio una borsa con il necessario, compreso un comodo lucchetto a combinazione (quattro cifre).
Ma il rilassamento forse è eccessivo, perché quando esco dalla doccia mi rendo conto con orrore di non ricordare il codice della cassetta di sicurezza della reception (quattro cifre). Dentro ho cellulare, smartphone, tablet, chiavi della macchina ribelle, e chiavi di casa.
E con altrettanto orrore mi accorgo di non sapere a memoria il numero di cellulare di mia moglie, dei miei figli, di nessuno dei miei amici, nemmeno il numero di telefono di casa. Sono tutti memorizzati. Nel cellulare. Dentro all’armadietto.
Mi ricordo solo di un numero telefonico: “113”, ma l’istinto mi dice di lasciar perdere.
A quel punto mi si avvicina un tipo strano, viso aguzzo, occhi stretti, pizzetto cromato, uno strano ghigno stampato in faccia, avvolto da un anacronistico mantello e con un ampio cappello nero che gli nasconde buona parte dei lineamenti. Zoppica verso di me, mi sorride in un modo che mi dà i brividi e mi tende uno strano apparecchio, che sembra bruciacchiato, e puzza vagamente di zolfo.
“Vuole usare il mio?” mi chiede. “Il codice è solo tre cifre. 666”.
urca. mi è venuta l’ansia
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Ansia. Cinque caratteri.
Ci siamo dentro tutti, baby. 😉
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